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uomini e donne nella cronaca di tutti i giorni

Stalking: il carcere unica strada?

4 Agosto 2013
di Letizia Paolozzi

Carcerazione preventiva: discussione infiammata quando, al Senato, è stata approvata la proposta di modifica al Decreto cosiddetto “svuota-carceri” che aumenta il tetto massimo di detenzione dai 4 ai 5 anni perché scatti la custodia cautelare in carcere. Discussione non sull’abuso della custodia distribuita (a piene mani) quando dovrebbe essere motivata da effettivi pericoli di fuga, reiterazione, inquinamento delle prove. Ma tant’è. Il decreto si suppone alleggerisca le carceri sovraffollate. Così viene “salvato” dalle sbarre chi finanzia illecitamente i partiti, chi rende falsa testimonianza, chi vende marchi contraffatti. Già qui la modifica introdotta ha creato proteste e polemiche. Ma la modifica introdotta al Senato non farebbe scattare più la custodia cautelare per un reato odioso e violento come lo stalking. Giusta dunque la volontà del Parlamento di reintrodurla. Più interrogativi mi suscita la sicurezza che il carcere sia l’unica strada per la prevenzione. Sono stata colpita dal sì corale delle parlamentari; dalla posizione di Adriano Sofri che pur essendo critico inflessibile del carcere vede nel carcere per il molestatore lo strumento a difesa dell’incolumità delle donne. E (sul “Foglio” del 31 luglio) lo spiega così: “Nell’ambiguità dell’aggettivo “preventivo”, è contenuta una differenza: che il carcere possa servire a “prevenire” la commissione del delitto più grave di cui la persecuzione può essere la premessa, e la promessa: dall’aggressione fisica fino all’assassinio”.
Sofri sembra non credere all’esistenza di misure cautelari al di là del carcere ma soprattutto non scommette un soldo sul lavoro politico portato avanti da tanti soggetti.
Il risultato di questo ragionamento è che la forza della ribellione femminile, la soggettività delle donne scompare con la loro vittimizzazione – mentre cala il sipario sulle pratiche messe in campo per contrastare gli attentati al corpo e alla libertà femminile.
Vorrei capire da che dipende il silenzio sulla matrice maschile della violenza, sull’impossibilità, per tanti, di dominare il sentimento della perdita? Dicono che “questo non è un paese per donne”. Vero. Ma delegare la soluzione, anzi “la incolumità altrui” all’ istituzione totale significa non dare peso ai discorsi che alcuni uomini (quelli per esempio dell’associazione Maschile Plurale) tengono nelle scuole ai ragazzini insicuri della propria identità; significa dimenticare le associazioni che alla maniera degli alcoolisti anonimi si occupano dei “maltrattanti”, non prendere in considerazione le case per uomini molesti che stanno sorgendo da più parti (ne scrive Franca Fortunato sul “Quotidiano della Calabria” dell’1-8-2013).
Tutto questo non conta? Non conta quel lavoro politico che è una forma di cura della violenza. Con il rischio, certo, che la cura si traduca in mercato professionale, editoriale, pubblicitario. La cosa non mi scandalizza. Finalmente l’orrore viene nominato.
Tuttavia il modo in cui lo si nomina è importante. Nel linguaggio comune si parla di femminicidio, termine nato in Messico dove il problema delle morti femminili è enorme. A Ciudad Juarez non si conoscono i numeri della strage. Ma “femminicidio” si riferisce alle “femmine” non alle donne. E parandosi dietro al “femminicidio” la società – sostiene l’avvocata Barbara Spinelli – finge di non vedere che le uccisioni avvengono all’interno del rapporto uomo/donna. Il decreto “svuota-carceri” reintrodurrà la carcerazione preventiva. Pare che sia merito delle donne che, nelle istituzioni, hanno il compito (per scelta? per trovare uno spazio? per gentile concessione maschile?) di “occuparsi” del sesso femminile. Sarebbe stato importante da parte loro e da parte degli uomini qualche parola in più, anzi, una parola diversa, sulla violenza.

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