Un articolo di Franca Fortunato pubblicato sul Quotidiano della Calabria. –
CI SONO parole che nel momento in cui le sentiamo hanno la forza di svelarci la verità, aprendoci ad uno sguardo nuovo sulla realtà. Si chiama rivoluzione simbolica. E’ quanto mi è accaduto quando ho sentito le parole della madre di Rosy Bonanno, la giovane venticinquenne accoltellata a Palermo dal suo ex convivente, davanti al figlioletto di due anni. “E’lui che dovevano rinchiudere non mia figlia”, disse la madre nel ribattere a chi osservava che i servizi sociali e la polizia, a cui la figlia aveva denunciato le violenze, intimidazioni e minacce del suo ex, non avevano provveduto a portarla con il figlioletto in una casa protetta. Rosy aveva scelto di stare con i suoi genitori, e sua madre era disperata perché non avevano chiuso lui da qualche parte e salvato la sua Rosy da un “delitto annunciato”. Molte volte viene ripetuto che le donne non denunciano. Rosy l’aveva fatto, come pure Cristina Biagi, 38 anni, di Massa Carrara, che denunciò il suo ex marito alcuni giorni prima che lui la uccidesse, ferisse l’uomo che credeva il suo amante e si suicidasse sulla spiaggia. E così pure Erika Ciurlia di Lecce, uccisa dal suo ex marito, che si è poi suicidato. Rosy, Cristina e Erika, uccise l’una dietro l’altra ( 10, 28,29 luglio 2013) avevano denunciato i loro uomini, ma questo non le ha salvate dalla morte. Tutte e tre non avevano chiesto di andare in case protette ma erano tornate a vivere dai loro genitori. Un errore?
Se guardiamo dal punto di vista della vittima, sicuramente sì, ma se ci spostiamo sui violenti, non credo proprio. L’errore è che, dopo le denunce delle tre donne, i violenti non sono stati messi in condizione di non nuocere, rinchiudendoli, possibilmente, in qualcuna delle case per uomini molesti e violenti che stanno già sorgendo nel nostro paese, per iniziativa di uomini impegnati in un percorso di riflessione sulle radici della violenza maschile sulle donne, a partire da sé. Che questa sia la strada, che molte che hanno subito violenza desiderano per sé, me lo conferma la lettera di una giovane donna, Maria ( nome inventato), pubblicata qualche giorno fa su Repubblica ( 27.07.2013). Per non fare la fine di “quelle tante ragazze uccise dai propri compagni”, dopo un anno di violenze e maltrattamenti, Maria ha denunciato il marito e adesso si trova in una casa protetta da dove ha scritto la lettera per spingere altre donne, raccontando la sua storia, a denunciare e scappare dal proprio uomo violento, ma anche per fare sapere della sua “rabbia” e “indignazione” per una condizione che la fa sentire una “reclusa”, senza aver commesso alcun crimine. “ Mi trovo – scrive – isolata dal mondo e lontana dagli affetti in una casa di cui nessuno sa l’esistenza e che deve rimanere segreta. La zona è sorvegliata in ogni angolo da telecamere. Non scrivo da un carcere. Non è per un reato commesso che mi trovo qui ma per gli sbagli di un’altra persona, una persona che ritenevo mi amasse. Sono chiusa qui dentro senza la possibilità di uscire né di ricevere visite, tutto questo per la mia sicurezza”. Sicurezza a costo della propria libertà. Maria sente ciò come una punizione, un’ ingiustizia nei suoi riguardi in quanto “vittima”, non “colpevole”. A partire dalla sua esperienza, lei capovolge il discorso e scrive: “… E’ il predatore che deve stare in gabbia per non nuocere alla gente non le persone che si devono segregare (..). Beh, è quello che è stato fatto a me. Io ho chiesto aiuto alle persone a me più vicine ( essendo limitata in tutto), e per fortuna loro hanno parlato con la polizia e i servizi sociali. Risultato? Un giorno sono uscita dalla casa in cui vivevo con Mario per visitare il mio cane dal veterinario e, una volta scappata, ho finto la mia scomparsa. Lo stesso giorno due educatrici mi hanno presa, e portata qui in gran segreto”. Maria ha fatto denunciare il suo compagno per essere liberata dalla paura che, un giorno, lui potesse ucciderla come Rosy, Cristina, Erika e le tante altre (69 dall’inizio del 2013), “le cui storie – scrive – occupano due minuti nei notiziario o vengono raccontate ad “Amore criminale” mentre le loro famiglie, impotenti, sono straziate di dolore”. Era scappata dal suo uomo, dopo averlo fatto denunciare, ma non aveva scelto di nascondersi in una casa protetta. Sono i violenti – come lei scrive – che devono essere segregati, non chi subisce violenza e “ lo Stato – aggiunge – faccia finalmente una legge ( già presente in altri paesi dell’Ue) che punisca i veri colpevoli e non noi vittime. E se non saranno i ministri a farlo dobbiamo essere noi a farci sentire per avere diritto ad una vita da esseri umani e non da prigionieri”. Maria non ha chiesto pene più severe per i violenti, come invece si è affrettata a promettere la viceministra del lavoro e alle Pari Opportunità, Maria Cecilia Guerra, ma ha chiesto, innanzitutto, di spostare lo sguardo dalla donna maltrattata, dalla vittima, la sola che deve decidere sempre e comunque se denunciare o meno, se entrare o no in una casa protetta, all’uomo violento, per impedire che questi arrivi ad uccidere. E’ lui che, denunciato, va isolato, segregato, prelevato e privato della libertà di nuocere, per essere accompagnato, possibilmente, da altri uomini in un percorso di presa di coscienza e di consapevolezza delle radici profonde della violenza maschile e liberarsi dalle paure, dai condizionamenti, dalle insicurezze, determinati dalla venuta meno di un ordine simbolico e sociale “patriarcale”, in cui la violenza e i maltrattamenti erano chiamati amore.