Pubblichiamo l’intervento di Paola Mastrangeli all’incontro “Sulla violenza. Ancora”, rivisto dall’autrice.
Ringrazio Ida Dominijanni per aver pronunciato e argomentato lucidamente la parola RABBIA in questo contesto in cui ci ritroviamo a parlare di violenza. Ancora.
La rabbia è il sentimento, l’emozione che ha alimentato i primi anni del femminismo. Quando riempivamo le piazze con i nostri corpi urlando contro l’oppressione patriarcale che ci negava identità e libertà.
Sono passati più di 40 anni, le donne (il soggetto ormai non più imprevisto) sono autodeterminate, forti, libere. Valgono, lo sanno e lo dimostrano nel personale e nel politico. Hanno reso questo paese migliore di come lo hanno trovato, per sé e per tutti. Ma sembrano paghe di aver raggiunto questo risultato. Forse siamo una generazione che ha meno energie e qualche acciacco in più. Siamo sempre molto lucide e critiche ma la rabbia non ci abita più. E anche molte giovani donne sembrano attestate su meri traguardi paritari. Durante un evento alla Casa alcune ragazze mi hanno chiesto di vederci per parlare di femminismo. Lauree, masters, viaggi, buona cultura, ricercatrici e/o posti di lavoro di qualche responsabilità in aziende o enti pubblici. A volte chiedevo loro: cosa non sopportate, cosa vi offende, cosa vi provoca sdegno, quando vi esplode la rabbia? Certo oltre lo smog, la fame nel mondo e le guerre! Ho cercato in loro, giovani donne intelligenti, gratificate, colte e anche belle, barlumi di passione politica. Mi ritornavano autodeterminazione, cultura, spessore, identità, financo libertà. La strada era stata indicata e spianata dalle nostre conquiste. Non c’era stata la fatica della lotta per averle..
Ma mi sono chiesta: possibile che la rabbia debba nascere ed esplodere solo in situazioni di oppressione, di negazione? Perché io ancora mi scandalizzo, mi indigno, mi sento torcere la pancia e il cuore per la violenza maschile contro le donne, per i barconi pieni di speranze e cadaveri, per le piccole nere buttate in strada come corpi-merce per maschi bianchi che però sparano ai maschi neri, per i migranti che dormono davanti la chiesa, per il lavoro che o non c’è o è in nero. Per l’attenzione posta sempre e solo sulla vittima nei casi di femminicidio e mai che la stampa sottolinei che ci sono stati 124 maschi assassini di donne. Mai che il giornalismo lavori a serie inchieste mettendo insieme psicologi, sociologi e tutti i maitres à penser seduti sulle poltrone televisive per indagare sulla vita di questi assassini (quanto fa paura definirli solo in questo modo mentre le donne sono definite solo vittime senza alcun problema) e scavi nelle ragioni che li hanno spinti ad uccidere le donne che dicevano di amare.
Tutti a nascondersi dietro ipotetiche malattie o raptus improvvisi, quando non si colpevolizza addirittura la vittima che “se l’è cercata”. Mi offende e mi fa rabbia la violenza di una classe politica subdolamente autoreferenziale, incompetente e cialtrona. Quando parlavo con Simonetta Spinelli di questa rabbia, che non so più dove mettere a frutto, mi consolava il fatto che anche lei ne era ancora abitata. Diceva che la rabbia era la marcia che la faceva ancora funzionare anche quando ogni azione politica sembra il tentativo di volare senza ali.
E che la rabbia era come avere le ali.
La rabbia la rendeva felice. Mi diceva: se provi rabbia, e la tua è rabbia politica e non esistenziale, sei viva. Oggi il panorama femminista è variegato, vivo, interessante. Li chiamiamo: i femminismi. Nuovi soggetti che pensano, inventano, lavorano a modelli politici che cercano di coniugare di nuovo la teoria e la pratica, le politiche del territorio e quella con la cosiddetta P maiuscola, cioè quella femminista. Quella che riporta il corpo nel discorso e nell’azione alimentata e resa più incisiva dalla passione e, appunto, dalla rabbia messa in moto da una realtà ormai insostenibile e dal desiderio e la coscienza della propria forza e determinazione nel volerla cambiare. Quella rabbia però che sa costruire il nuovo mentre distrugge il vecchio dentro e fuori di sé.
Sento che può aprirsi un varco in questa specie di impotenza disperata che ci viene dallo spettacolo di una campagna elettorale al limite della decenza e della demenza. Da stampa e massa media che da tempo non informano ma conformano. Dai vecchi e nuovi fascismi. Dalla violenza esercitata in tutte le sue forme contro umani, animali, ambiente, contro la terra tutta. E’ ora che le donne che non vogliono esserne complici dicano basta. Che scoprano la forza che è in loro e che comincino a usarla e far paura. Non solo il “basta” di Medea, Dalila, Giuditta. La donna sa e può ergersi a Giudice Giusta: che dà la vita e può dare la morte. La madre tedesca che alla fine del processo che condannava all’ergastolo l’assassino stupratore della sua bambina di sette anni, in quell’aula esercitava il suo diritto di giustizia vera uccidendolo davanti a tutti.
Sono una non violenta e non sono né per la giustizia sommaria né per le armi. C’è la legge a regolare la vita umana, ma non può essere più la legge patriarcale. Non c’è bisogno di uccidere nessuno se non le giustificazioni, le scuse, le complicità che abbiamo con gli uomini e fare i conti con la nostra paura a metter loro paura. Li mettiamo al mondo, li amiamo ma è ora che capiscano che basta. Che non si può andare oltre nello scivolamento verso la dis-umanità in cui ci ha portato la loro gestione del potere.
Ogni tanto sogno ad occhi aperti un evento straordinario, quasi impossibile. Una manifestazione enorme, immensa, incombente, un fiume straripante di donne che sfilano in un silenzio assordante. Senza una parola, un grido. Determinate nel dimostrare la loro rabbia. Solo migliaia e migliaia di cartelli di tutte le forme e dimensioni con su scritto: basta. In tutte le lingue. E quel mare di donne mute perché le parole spese in privato e in pubblico non hanno trovato ascolto, dimostra che la loro pazienza è finita. E’ il silenzio severo della madre che pensa e dice: adesso BASTA.
E’ la rabbia sana e vivificatrice di chi sa che il cambiamento è indispensabile ma deve essere radicale per la sopravvivenza nel presente e, forse, per la felicità nel futuro. Diceva Elena Gentili: “Le donne con le donne possono”. E’ vero. Anche mettere paura.