Pubblichiamo l’intervento di Letizia Paolozzi che ha aperto, sabato 10 alla Casa internazionale delle donne di Roma, l’incontro promosso dal Gruppo delle femministe del mercoledì sul testo “Sulla Violenza. Ancora”. Pubblicheremo prossimamente gli altri contributi (che invitiamo a farci pervenire).
Provo a spiegarvi come ci siamo mosse nel nostro gruppo. Intanto abbiamo scelto un linguaggio che si regge su molti congiuntivi e condizionali, per quanto possibile escludendo l’indicativo assertivo.
Nel riflettere sulla violenza guardiamo con orrore al ripetersi inesorabile di gesti che negano la mente e il corpo femminile. Restiamo convinte della specificità della violenza sulle donne. Altrettanto, siamo consapevoli che la violenza ha a che fare con la sessualità maschile.
In questi giorni sono morte, quasi di seguito, due ragazze che nelle foto hanno ambedue gli occhi sgranati sul mondo.
Diciannove anni Jessica. Viene accoltellata da un tranviere. Diciotto anni Pamela. Gli uomini che incontra sono un italiano “con i sandali mentre intorno le mimose fioriscono” (lo scrive il giornalista del Corriere della Sera mentre le giornaliste che hanno firmato un manifesto contro le molestie non sentono il bisogno di dire bah ma adesso il pezzo è stato tolto dal sito del Corriere immagino per via delle proteste) che scambia denaro – 50 euro – con sesso, un tassista, un farmacista, lo spacciatore.
Immagino che sia stato di sesso maschile anche chi ha tagliato a pezzi Pamela e infilata in due valige. Questi uomini sanno da dove viene la ragazza. Che cosa farà. Non hanno lontanamente immaginato di prendersene cura.
La stessa sensazione di orrore l’abbiamo provata di fronte ai sei feriti da Luca Traino che ha spiegato il suo odio razzista con la vendetta nei confronti di 5 uomini (e una donna) neri (per il corpo di Pamela fatto a pezzi). Tranne Maurizio Acerbo, di Potere al popolo, nessun politico (finalmente l’altro ieri si è deciso il ministro della Giustizia) è andato a trovare i sei. E’ seguito un consenso di massa verso chi giustifica la sparatoria. Messaggio implicito: Se sei di pelle scura, ti può capitare di venire colpito mentre stai aspettando l’autobus. O davanti al supermercato. Per noi non esisti. Sei un fantasma. Così si prendono le distanze dalle vittime invece che dal colpevole. Così Pamela è stata dimenticata, messa da parte.
A Macerata e fuori da Macerata hanno sussurrato o detto a voce alta che Traini “in fondo… si può capire” oppure si promette: “manderemo via seicentomila rifugiati”…
Così di Pamela non si ricorda più nessuno.
Le istituzioni per non infastidire gli eventuali elettori hanno deciso di annullare o disertare la manifestazione, unico modo finora conosciuto di reagire all’esaltazione della violenza fascista o razzista. Che intanto si mobilita contro la presenza degli immigrati.
Abbiamo provato orrore di fronte ai massacri perpetrati in luoghi lontani (che vengono illustrati in televisione con immagini di repertorio) oppure ascoltando le notizie di una notte di strage a Parigi, a Barcellona, a Nizza. Nelle strade che magari conosciamo, dove ci è capitato di camminare, dove ci siamo fermate per bere un caffé.
Altrettanto vicini ci sono apparsi gli episodi di Napoli, dove Arturo, Gaetano, ragazzini quindicenni, sono stati accoltellati, colpiti con pugni e calci da coetanei ossessionati dai selfie, che passano ore a postare e obbediscono al richiamo dell’etica del branco (“Noi – hanno detto – “ siamo come i tumori”).
Si tratta di gesti non sovrapponibili, non assimilabili e però collegati, cuciti insieme dal filo della violenza. Che è globalizzata. Non solo il terrorismo, pure il femminicidio è una forma della globalizzazione.
Per questo, ci è parso necessario esplorare la violenza non solo nell’intimo, nel privato, nel personale nel politico. Non una assimilazione meccanica tra terrorista e femminicida perché non si tratta di togliere forza alla nostra lotta, alla lotta delle donne, ma di far uscire la violenza dell’uomo sulla donna dai confini della patologia e della cronaca nera. Forse il filosofo Severino estremizza ma non va tanto lontano dal vero quando accosta il giovane terrorista che vuole vendicarsi al maschio che si trova respinto.
La posizione degli uomini nella nostra società ancora oggi viene definita dall’uso della violenza fisica, simbolica, sociale, economica. Avete sentito se volete un esempio di questi giorni, il liceo Visconti di Roma che si è vantato di non avere nelle sue aule poveri o disabili.
Pensiamo che la violenza si diffonda per analogie, contiguità e differenze profonde. E’ importante tenerne conto, nominarle per evitare che il racconto della società avvenga per noi attraverso la costruzione di due poli, il maschile e il femminile, non solo distinti ma opposti tra chi la perpetua e chi la subisce.
Non tutte le donne sono vittime innocenti, non tutti gli uomini sono assassini. E carnefici. Lo sappiamo. E non intendiamo crocifiggere un sesso che comincia a giudicare e rifiutare i comportamenti aggressivi.
Nella sessualità maschile c’è sempre in primo piano la questione della virilità connaturata con il potere, come scrive Edoardo Albinati. Gli uomini lo esercitano sulla carne femminile. Oppure, screditando la parola delle donne. Nel film di Spielberg The Post, mi pare che la cosa più interessante insieme al ricordo che è quasi un inno per la stampa a piombo dei giornali, sia il gesto di Kay Graham, che da figura femminile incerta di sé si trasforma in una donna coraggiosa, lungimirante capace di decidere la pubblicazione delle carte segrete del Pentagono sulla guerra in Vietnam trafugate da Ellsberg collaboratore del Dipartimento della difesa.
A proposito di parola femminile, oggi assistiamo all’esplosione con il movimento del Metoo della parola di tante donne, quelle donne che gradassi arroganti volevano tenere nel ruolo di vittime consenzienti. E che si ribellano a un sistema di dominio dato per normale.
Ho letto di una prostituta quarantenne sudanese che nel casertano veniva minacciata di morte se non dava agli sfruttatori 150 euro alla settimana. Anche lei ha deciso di sottrarsi ai “gestori” del suo corpo.
E’ un buon momento per noi donne? Sì se la parola femminile prova a tenere insieme più piani, senza isolarsi. Se non obbediamo all’imperativo di stare al perimetro del nostro corpo, dei nostri temi, sperando che non ci impicciamo di ciò che avviene a Macerata.
Cercare di contrastare la violenza attraverso più legge e più repressione non scioglie la paura. Della paura bisogna farsene carico, giusta o sbagliata ma comprensibile. Il che non significa accettarla.
Abbiamo lavorato perché cambi il rapporto tra i sessi, la costruzione della mascolinità; di qui possiamo provare a raccontare la nostra idea di società.
Dovremmo trovare un modo per farlo. Non tanto o non soltanto in una manifestazione ma attraverso degli appuntamenti reiterati pubblici, come fanno le madri di Plaza de Majo, perché ci si aiuti reciprocamente a nominare i problemi, le contraddizioni, a ristabilire le basi di vita comune: “Insegnare a vivere” solidalmente, in relazione, per affrontare le incertezze del destino umano.
Io credo che spetta a noi raccontare l’idea che abbiamo della società.