Pubblichiamo l’intervento di Lia Cigarini all’incontro “Sulla violenza.Ancora”, rivisto dall’autrice.
Oggi, quando un uomo uccide una donna, nella stragrande maggioranza dei casi, lo fa per metterla a tacere, perché quella donna ha detto no all’uso del suo corpo e della sua vita da parte di questo lui, marito o fidanzato o uomo occasionalmente incontrato.
Sono donne che fanno dunque una scelta di autonomia, di libertà. Gli assassini sono uomini sicuramente orrendi che devono essere puniti. Tuttavia non sono d’accordo che il movimento delle donne consumi tutte le sue energie nell’esecrare ed ottenere la punizione dell’assassino. L’impegno e le energie, a mio parere, dovrebbero essere rivolte principalmente a parlare della donna uccisa: narrando la sua storia e dando un senso, un nome, al diniego che l’ha silenziata per sempre.
Queste donne uccise sono protagoniste in prima persona della rottura del patto sessuale che sottendeva tutte le istituzioni sia quelle democratiche che quelle autoritarie conosciute fino ad ora.
Noi femministe e tutte quelle che negli ultimi anni hanno preso la parola nel lavoro, nella politica e nei tanti campi del sapere, siamo protagoniste nel senso ovvio del termine. Nel caso invece delle donne uccise non è ovvio e tocca a noi farle protagoniste e dare loro un nome.
La definizione di vittime quindi non è adeguata e qui viene a proposito quanto scrive Rebecca Solnit nel suo bel libro che ha molti capitoli dedicati alla violenza degli uomini sulle donne:”la mattanza messa a segno da un singolo uomo potrebbe fare da spartiacque nella storia del femminismo che è sempre stata e ancora è una lotta per dare un nome e definire, per parlare ed essere ascoltate” e continua “perché in questa lotta la vittoria o la sconfitta dipendono in larga parte dalla lingua e dalla narrazione cui si ricorre”, (Gli uomini mi spiegano le cose, riflessioni sulla sopraffazione maschile, Ponte alle Grazie, 2017).
Nella storia, in presenza di lotte con svolte epocali si parla di martiri (parola che significa testimoni): del cristianesimo, delle varie rivoluzioni, della Resistenza ecc. Questa mi sembra la definizione giusta per le donne che hanno detto di no alla sopraffazione maschile e sono state assassinate.
Capisco e provo anch’io disperazione e dolore per la “mattanza” di donne a cui assistiamo. Non ho però la tentazione di ritirarmi in un mondo separato di femministe. Per due ragioni, la prima è che in molti paesi del mondo le donne sono ovunque, lavorando gomito a gomito con gli uomini. E sembra che ci vogliano stare cercando di cambiare a propria misura il contesto in cui si trovano.
La seconda è che la recente coraggiosa lotta iniziata da alcune americane propagatasi in tutto il mondo, ha sconnesso il sistema sessista cioè è stata una risposta politica efficace alla violenza contro le donne. E i media, il potere mediatico cioè gli uomini, per la prima volta l’hanno registrata come “una svolta epocale da cui non si torna indietro”.
Si può quindi scommettere sul fatto che ci siano sempre più uomini abbastanza forti da reggere un confronto/scontro con le donne e capaci di educare i più inconsapevoli e violenti tra di loro. Per queste ragioni mi chiedo: perché accontentarsi di mezzo mondo quando ne puoi cambiare uno intero?.