Poteva sembrare un azzardo accostare la violenza maschile contro le donne alla violenza terroristica, come fa – ponendo molti altri interrogativi – il testo del Gruppo del mercoledì (Sulla violenza. Ancora) al centro di un incontro pubblico il prossimo sabato 10 alla Casa internazionale delle donne di Roma, dalle 10,30 alle 16.
Eppure il linguaggio corrente – cioè quello che corre tra voci “del popolo”, frasi “istituzionali”, immagini sui “social”, e il “mainstream” mediatico – ha già registrato il cortocircuito significante ormai scattato tra queste figure del nostro dramma quotidiano.
La scena è quella della città di Macerata, dove il “pistolero pelato” – scrive il Corriere della sera – Luca Traini ha confessato che il movente della sua sparatoria era la vendetta. La vendetta della orrenda morte inflitta a Pamela Mastropietro molto probabilmente da un altro maschio, Innocent Oseghale. Ora sono nello stesso carcere. E credo che la figura del “giustiziere violento” sia esattamente speculare a quella del (presunto) femminicida. Non solo perché tra i feriti dai proiettili della sua “Glock” c’è anche una donna che poteva perderci la vita. In questo contesto entra poi l’immagine su facebook della testa mozzata di Laura Boldrini. Autore un terzo maschio inidividuato dalla polizia: la “colpa” della presidente della Camera è quella di difendere i diritti degli emigranti: si meriterebbe quindi di perire in quel modo per mano di uno di loro. Una causa che vale la scesa in guerra. Guerra certo virtuale, così come la decapitazione della donna. E il cortocircuito linguistico e di senso si chiude: di “terrorismo” parla la stessa Boldrini, così come – riferendosi a Macerata – fa Erdogan in visita a Roma. E come aveva detto a proposito delle baby-gang (maschili) napoletane il ministro Minniti: certo “non sono terroristi”, ma usano “metodiche di carattere terroristico”.
Ha scritto ieri sul Post Giulia Siviero, sul “caso Luca Traini” (la cui vicenda personale e familiare affiorante dalle cronache potrebbe aprire altri capitoli sui rapporti tra i sessi): “È da Elena di Troia in poi che la guerra si gioca sul corpo delle donne, che il corpo delle donne funziona come campo di battaglia, come luogo di contesa di un presunto scontro di civiltà, come corpo a disposizione quando fa comodo, come oggetto inanimato nel migliore dei casi o come corpo morto nel peggiore (ma solo se bianco e violato da un corpo nero). Che funziona, soprattutto, come alibi e attenuante: perché in fondo un delitto d’onore (abrogato quando io già andavo all’asilo) è socialmente più accettabile di un attentato xenofobo”.
La matassa della violenza e delle sue dinamiche riconducibili al sesso è molto ingarbugliata, ma penso sia questo soprattutto il filo da inseguire. La guerra – ha teorizzato James Hillman nel suo Un terribile amore per la guerra (Adelphi 2005) – è “normale”, “inumana”, “sublime”, e “religiosa”, perché inscindibile dal volere di un Dio. Per lui non sono il sesso maschile e il patriarcato l’origine della violenza bellica, ma è il patriarcato a essere “al suo servizio, nel darle forma e ordine attraverso il controllo gerarchico, la ritualità, l’arte e il diritto”.
Molte cose che ci accadono intorno, da quel pistolero avvolto nel tricolore e lettore di Hitler, al tiranno Erdogan che dialoga col Papa, a Trump che rilancia l’impiego delle bombe atomiche (ma “piccole”), ai disastri mai conclusi delle “recenti” guerre in Afghanistan e nel Medio Oriente, ci dicono che questa capacità “ordinatrice” maschile è sempre più impotente.
Ripartiamo da qui?