Ora, nei settant’anni della Resistenza, credo che sia venuto per me il momento di dire qualche parola pubblica – in privato ne ho parlato con amici e amiche in questi anni – su mio padre. Che il 25 aprile del 1945 era a Torino. Nascosto. In una casa di parenti, o amici di parenti, non so bene. Perché lui era nell’esercito di Salò, della Rsi. Riuscì fortunosamente a tornare al paese, in Romagna. Lì fu fatto prigioniero, poi preso dagli inglesi, che lo portarono in campo di prigionia, ad Algeri. Dove rimase un anno. Tornò nel 1946, in tempo per votare al referendum e convincere mia madre, decisamente repubblicana, a votare monarchia.
Ma non voglio raccontare adesso questa storia.
È altro quello che mi interessa. Sono nata e cresciuta a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Ho avvertito molto presto la differenza tra quello che si diceva in casa, e quello che si raccontava fuori. C’era anche una differenza profonda tra mamma e papà, ma questo l’ho capito dopo, molto più tardi. È sempre stata una sottotraccia, mai esplicitata da loro.
Fondamentale è stata la mia maestra, Rosa Raffo, il nome mi è rimasto stampato. Non sono sicura, ma credo che fosse verso la fine delle elementari, nella primavera del ’60, quando il rapimento di Eichmann da parte del Mossad in Argentina riportò all’attenzione quello che in tanti avevano cercato di seppellire. O forse era proprio il 25 aprile. Lei ci spiegava i fatti, ricordo l’agitazione in casa, che aumentò l’anno dopo, con il processo in Israele. E questo vada a monito del senso della scuola pubblica, dell’ampliamento di orizzonti, proprio perché aperta a tutti, che può portare.
Io non riuscivo a tenere insieme il doppio registro, chiedevo, facevo domande. Lei, la maestra, un giorno mi prese da parte, forse all’uscita da scuola. E mi disse. Guarda. Le cose stanno così. C’erano i tedeschi. C’erano quelli che li hanno combattuti. Poi c’è tutto il resto. Il fascismo. Devi saperlo. Poi farai le tue scelte. In realtà non ricordo le parole. Ricordo lo sguardo, diretto ai miei occhi. Mio fratello è morto, mi disse. O il marito, non ricordo. È medaglia d’oro. Ricordo la serietà con cui mi parlava. E ho capito. Benissimo.
È stata fondamentale. Uno spartiacque tuttora vivo, che mi ha consegnato una responsabilità morale. Mi ha insegnato che non si può accettare a occhi chiusi quello che ti viene detto. Anche da chi ami di più. Ho amato molto mio padre, tutta la vita mi sono opposta alle sue scelte.
Ho deciso di raccontarlo, perché non si tratta solo di una vicenda privata. La formazione di una coscienza politica passa attraverso il conflitto. Anche quello più intimo.