Chi sapeva / di che si trattava, / deve far posto a quelli /
che ne
sanno poco. / E meno di poco. / E infine assolutamente nulla.
Wislawa Szymborska , La fine e l’inizio (1993)
Mi ricordo quando, all’inizio degli anni Ottanta capitò, a me e ad altre amiche del mio gruppo (all’epoca la rivista di storia delle donne “memoria”) di salutare con ammirata sorpresa il Sottosopra verde Più donne che uomini. Finalmente qualcuno che aveva trovato le parole per dire l’esperienza che noi – donne dei Settanta – stavamo facendo senza riuscire fino in fondo a raccontarne la grande novità. L’esperienza era il superamento della miseria sociale femminile. Il Sottosopra verde celebrava nel 1983 questa prima fondamentale vittoria del femminismo. Un “filo di gioia” – si disse poi – percorreva le donne italiane, apparentemente più lontane di altre dai traguardi (bugiardi?) delle pari opportunità, ma infinitamente ricche per un semplice ed elementare fatto: la conquista raggiunta da alcune per tutte di un nuovo ordine simbolico. Era questo l’orizzonte in cui poteva finalmente iscriversi il desiderio femminile, fin lì ‘nuda vita’ oppressa e del tutto cancellata dal modo maschile di vestire il mondo. Dopo di allora cominciò a sparpagliarsi per ogni dove – dai luoghi eccelsi ai più umili – la valorizzazione di nuova competenza del vivere, davvero capace di capire e di farsi capire nella sua differenza.
Anche oggi va raminga per il grande mondo globale una competenza del tutto nuova. Che è – anch’essa – una competenza del vivere, ma segnata dai fenomeni del grande mondo globale. Di questo parla Christian Raimo. E voglio qui spiegare le ragioni dell’interesse che il suo articolo mi ha suscitato. Il punto centrale è il riproporsi oggi di alcuni nodi che la memoria delle donne, o – almeno – la mia memoria – sente familiari. A me pare, infatti, che questa nuova competenza condivida per il momento, con l’esperienza femminile di allora, il fatto di presentarsi come ‘nuda vita’. Vale a dire una ‘vita’ che non ha ancora trovato le parole appropriate per dirsi nella sua specificità. E’ un altro di quei momenti storici in cui, per dirla con la poesia che cito all’inizio “Chi sapeva / di che si trattava, / deve far posto a quelli … / che ne sanno meno di poco.” ?
Vero è che oggi non siamo in presenza di un soggetto così trasversalmente nuovo, e di una esperienza valida per tutti i tempi e tutti i luoghi come il guadagno femminile a dirsi liberamente. Ma alcune questioni sollevate dalla “nuda vita” di Sara come di Christian, mi interrogano come non mi accadeva da tempo. Mi chiedo: come condividere questa esperienza? E – soprattutto – a partire da quale genealogia cercare le parole per dirla?
Certo che ci sono le donne e i loro – i nostri – scritti, parole e pensieri. Lo dice Alberto Leiss e lo pensiamo tutte e molti. Ma l’articolo di Raimo parla di qualcosa che la nostra generazione e forse nessuna generazione ha prima conosciuto nei termini attuali. Si tratta di qualcosa che definirei l’ umiliazione radicale di una competenza, di un insieme di chiavi di lettura del mondo che vengono occultate – nella loro specificità – e soppresse. Questa umiliazione radicale assomiglia molto a quella cancellazione e oppressione che noi donne conosciamo bene. Quello che Raimo chiama il “precariato cognitivo” , e che così espressivamente ci si presenta nelle vesti (e quasi nelle carni, certo nella sessualità) di Sara, è già stato messo in scena: ad esempio nel film “Riprendimi” di Anna Negri o nell’ultima pellicola di Soldini.
Lo abbiamo però visto – per l’appunto – in scena, ma non detto. Tuttavia c’è una cosa che mi sento in dovere di mettere subito in chiaro. A mio parere fa assolutamente parte della lacunosità di questo dirsi il ricorso a termini come “coscienza di classe”. E qui concordo con Alberto Leiss e con la sua lettura perplessa dell’intervento di Raimo. Appellarsi a orizzonti simbolici che ci hanno già condotti al disastro è più che fuorviante: è una scorciatoia inaccettabile e come tale va combattuta. Ma c’è qualcosa nel pezzo che sto discutendo che invece testimonia di una precisa messa a fuoco. E’ il riferimento alle 120 giornate di Pasolini e alla rappresentazione, contenuta in questo film così estremo ( da ogni punto di vista), della juissance che i potenti provano nell’umiliare…
C’è un di più nella umiliazione/cancellazione attualmente praticata dei ceti intellettuali, e nella loro riduzione a supposta inutile passività di contro al maschio “fare” dei potenti di turno, che non si spiega solo in termini di utile. E’ infatti dilettevole per Berlusconi e Bossi mostrare il dito medio ad ogni interpretazione del mondo che si vuole basata su di una competenza appositamente addestrata. Ma è esattamente questo godimento profondo che termini come “coscienza di classe “ non riescono a spiegare, poiché esso chiama in causa la sessualità di un soggetto, come invece mette bene in luce il terribile film di Pasolini. La forza simbolica di parole come “coscienza di classe” è scaduta proprio perché noi donne abbiamo cominciato a declinare la cifra dell’appartenenza in altro modo.
Oggi è in gioco una nuova forma di appartenenza: la non appartenenza a nessun tipo di mondo – appunto – come esperienza condivisa da un numero crescente di persone addestrate, invece, a pensare e a pensarsi nel mondo. Il fatto è che non sappiamo bene come chiamare queste persone: “precariato cognitivo” è categoria suggestiva ma…Tutto ciò provoca quello che Ernesto De Martino avrebbe chiamato “crisi della presenza” e che già ai suoi marxistissimi tempi non aveva niente a che fare con la lotta di classe.
Questo è quanto mi è venuto in mente per cominciare, intanto, a discutere.