In parte ha avuto ragione Pierluigi Battista, sul “Corriere” del 19 agosto 2010, a parlare di retorica e ipocrisia nel coro di lodi – e all’opposto di vecchi rancori – che hanno accompagnato la scomparsa di Francesco Cossiga, soprattutto sui canali televisivi. Tuttavia anche il suo commento, in realtà, si adegua proprio al coro che ha dipinto l’ex presidente della Repubblica come il “grande incompreso” della storia recente del nostro paese. Cossiga un “grande statista”? O come dice lo stesso Battista un “grande della storia italiana”?
Francamente direi di no. Oggi – 20 agosto – lo scrive a modo suo – cioè con una certa irruenza – Piero Sansonetti sul “Riformista”, e sostanzialmente mi pare che abbia ragione.
Esibirò anch’io il mio aneddoto personale, la telefonata di primo mattino che anche a me – come a davvero moltissimi in questo paese – capitò di ricevere dal presidente il giorno in cui l’Unità pubblicò un mio commento sul suo messaggio alle Camere del giugno del ’91. Un pezzo che avevo cercato di scrivere con obiettività, riconoscendo al testo del messaggio il merito di individuare un’esigenza di adeguamento istituzionale alla mutata fase politica dopo l’89 e il crollo del Muro di Berlino che mi sembrava fondata, al di là della condivisione delle sue analisti storiche e politiche e delle sue ipotesi istituzionali .
Cossiga, che sul piano dei rapporti personali sapeva anche essere un simpaticone (oltre che un aggressore minaccioso), apprezzò. Qualche amico di sinistra giudicò invece quel pezzo troppo poco critico verso il messaggio.
Vale la pena di ricordare che, sinistra a parte, l’allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, non volle controfirmare il messaggio – al suo posto lo fece Claudio Martelli – mentre lo stesso Bettino Craxi era assai tiepido verso l’impostazione “rivoluzionaria” di Cossiga.
Il fatto è che se nel messaggio alle Camere Cossiga si esprimeva tutto sommato con il linguaggio delle riforme, più o meno condivisibili, il suo ruolo quotidiano di “picconatore” aveva creato una situazione di generale imbarazzo e di conflitti generalizzati – a dir poco – che certo non aiutò per nulla anche coloro che pensavano a una riforma sensata del sistema politico.
Dunque al suo (certo non solo suo) fallimento lungo il sequestro Moro, e alle azioni repressive inaccettabili negli anni della contestazione quando fu ministro dell’Interno, va aggiunto il fallimento anche dell’intenzione riformatrice così sgangheratamente messa in scena nella seconda metà del suo mandato presidenziale.
C’è una micidiale osservazione, in una delle lettere dal carcere brigatista, del suo maestro Aldo Moro, secondo il quale Cossiga “lasciato solo” avrebbe potuto fare male. Direi che è stato proprio così, e che il dolore che ha perseguitato negli anni l’ex presidente della Repubblica per l’esito della vicenda Moro è forse l’aspetto più rispettabile della sua vita.
Con il titolo “Kordoglio” il “manifesto” ha onorato la sua tradizione di prime pagine folgoranti. C’è tutto il grottesco di una stagione politica italiana – di cui oggi si consuma la parabola – a cui Cossiga ha impresso sin dall’inizio il segno ambiguo dell’altalena tra il dramma e la farsa.