Le avete viste? Erano su tutti i giornali, 70 (proprio settanta, non una di meno) modelle belle, anzi bellissime, che avanzano tutte insieme sulla passerella per mandare in scena “il pezzo forte del made in Italy”, e cioè : la giacca. “Una giacca fuori l’altra: sartoriali, sensuali, precise. Avvitate, costruite, le spalle perfette” (Paola Pollo, Corriere della sera, 1 marzo). E sotto la giacca? Niente, “solo un piccolo body lingerie” e gambe, lunghe, asciutte, magre all’inverosimile, issate sui soliti tacchi dal 12 in su che oramai paiono un’appendice inamovibile e minacciosa dei piedi modaioli.
D’altronde le gambe, come diceva Truffaut, non sono il compasso con cui le donne misurano il mondo? (Daniela Fedi, Il Giornale, 28 febbraio).
E mentre loro sfilano per celebrare la “sicilianità”, la “sensualità”, la “sartorialità” di Dolce & Gabbana (Laura Asnaghi, Repubblica, 1 marzo) sul grande schermo alle loro spalle l’omaggio in bianco e nero a chi lavora per la griffe (4 mila nel mondo, 110 tra Milano e Legnano). Si vedono così donne e uomini normali, (facile immaginare piedi gonfi e cellulite sotto i camici bianchi), sarte che cuciono, modellano, tagliano, spillano. “Gesti quotidiani di un mestiere che pare fatto di sfavillanti apparenze, ma in realtà nasconde sacrifici, conoscenza, passione” (Antonella Amapane, La Stampa, 1 marzo).
Le cronache da Milano sono piene di enfasi e di patriottismo, i due stilisti legati dalla & hanno bandito le parole straniere e rivendicato le radici artigianali della moda nazionale, “perché l’Italia è dolce, l’Italia è femminilità”. Un applauso, commosso addirittura giurano le croniste, li ha travolti. Qualcuno ha urlato: “vogliamo il tricolore!” (Paola Pisa, Il Messaggero, 1 marzo).
Altro che il nostro re al festival di Sanremo. Mentre il paese pare sgretolarsi tra scandali, intercettazioni, miserevoli scambi e la classe dirigente si mostra (e viene mostrata con accanimento dai media) come un esercito in rotta, rigorosamente “in divisa maschile” (Lidia Ravera, L’Unità, 28 febbraio), pare tocchi alla moda raccogliere l’orgoglio italico umiliato.
Il tramite è ancora una volta il corpo di donna. “Una lussuosa creatura di un regno animale che non c’è ma in ogni caso fa sognare”, come quella che indossa le pellicce di Roberto Cavalli (Il Giornale, 1 marzo) o le tute di Cristina Ferrari, disegnate per una donna che “che adora la grinta dei capelli raccolti, degli occhi marcati ma non indulge in eccessive sovrastrutture”.
Una creatura che usa il suo corpo ma, forse, non si fa più usare.