Occorre non farsi ingannare dall’immagine di copertina: il suo malandrino virare sul seppia è inevitabile ci strappi qualche (fuorviante) sospiro. Da schivare è – ancor più – il titolo vagamente pettegolo; evoca “gamberi d’acqua dolce” che non nuotano più: per motivi piuttosto futili, si sospetta.
Si raccomanda invece una analisi attenta della quarta di copertina, un collage di bellissime istantanee che catturano – alla lettera – frammenti di vita dei protagonisti: facce e corpi, abbracci e primi piani indimenticabili. Viene così da dire che bene ha fatto – Furio Colombo, ad esempio – chi ha parlato a proposito di questa vera e propria “scrittura per immagini” di Giovanna Nuvoletti, di un’opera saldamente costruita sulla fotografia. Sulla fotografia e sulla pratica, già cara al gruppo 63, della narrazione spezzata: oggi diremmo decostruita e appoggiata sulla trama fragile e insieme fortissima di una impaginazione tutta d’autore.
Certo che sentiamo all’opera la cronista e fotografa implacabile nel cogliere in dettaglio difficili e poco narrati passaggi d’epoca: dal dorato bordeggiare dei ceti privilegiati tra Schiaparelli, Patou e qualche bevanda coloniale, gli anni del regime, fino alla guerra e al dopoguerra. Alcune figure risultano indimenticabili: Italo Balbo che sorseggia champagne su un’ala del suo idrovolante prima dell’esecrato esilio africano, a Edda Ciano in pantaloni, osservata con sarcasmo da dame immerse in raffinate nuvole di Air du Temps di Nina Ricci. Lo snobismo di un’aristocrazia svogliata e il famelico desiderio di vita di una borghesia ignorante come cornice “impolitica” delle pagine più buie del nostro sventurato paese: nei “gamberi” di Giovanna c’è molto di più di una semplice precisione del cogliere il passaggio dal riferimento alla Francia all’innamoramento per Glenn Miller e Louis Armostrong.
Non mi soffermo sulla querelle (da alcuni evocata) sulla “storicità” o meno dei protagonisti o di una loro riconoscibile identità. Che Adriana sia la madre di Giovanna (la Flora di cui l’opera narra la “messa al mondo” tra un abito Marucelli e un pigiama palazzo di Emilio Pucci: qualcosa di più di semplici implicazioni nella nascente couture italiana) non può essere messo in dubbio. Ma ciò non tanto per i sempre evanescenti motivi del dato anagrafico, di cui la memoria di un narratore si fa beffe come e quando vuole. In gioco è invece qualcosa di molto più stringente e compatto: la verità emotiva costruita dalla scrittura.
E qui soccorrono davvero le istantanee della quarta di copertina. Che mi hanno subito fatto pensare ad altre istantanee, e ad altri frammenti di vita, consegnati alle immagini, ai piccoli film e al diario di un’altra esistenza femminile spezzata. Come Adriana, anche la madre di Alina Marazzi, Liseli Hoepli, muore suicida ed è toccato alla figlia ordinare con amore e dolore i mille interrogativi di un gesto incomprensibile. Il film “Un’ora sola ti vorrei” ci racconta tutto questo. Come Adriana, Liseli è figlia di genitori agiati, colti e internazionali. Come Adriana, è una donna bella e piena di vita che cresce nei terribili anni Cinquanta: fervidi di energie, sfrenati nella voglia di vita, insofferenti di lacci e laccioli, ma ancora lontani dall’ immaginare un vero spazio per la libertà femminile.
Le due opere, di Alina e Giovanna, pur così diverse tra loro, convergono in una interrogazione che mi sembra comune: il femminismo salva la vita delle figlie? O, in altri termini, le madri, alcune madri, si sono uccise perché non c’era il femminismo?
Alina Marazzi sostiene esplicitamente questa tesi e la radice del suo ultimo documentario “Il pane e le rose” è proprio questa: il desiderio di rintracciare il seme della libertà negata alla propria madre e che consente a lei, figlia, di perdonarle quell’atto in sé inaccettabile che è il suicidio materno.
Anche nella memoria di Giovanna troviamo un avvio di risposta a questo interrogativo: “Ci fosse stato il divorzio – dice Flora, commentando la battaglia politica condotta a Milano per far vincere il si al referendum del 1974 – mia madre sarebbe ancora viva” (p.221).
Nella comparazione tra l’opera di Alina e il libro di Giovanna mi è dunque capitato di cambiare il mio giudizio. Fuorviata dall’esergo finale (una antidedica?) dei suoi “gamberi” (“Dedicato ad Adriana, quella vera. Che io non ho perdonato mai”,p.291), avevo pensato di trovarmi di fronte all’implosione che può verificarsi nella psicologia di una donna che non è riuscita a perdonare. E invece no. Dopo aver letto e – forse soprattutto – guardato, ho cambiato idea. Credo proprio che queste pagine comincino – almeno – a contenere il dolore più grande.
Come fossero una culla che la figlia ha costruito per la propria madre.