La mia alter ego Isabella Rauti (ma ancora non abbiamo deciso chi sia Thelma e chi sia Louise), nonché super competente sulle leggi e i provvedimenti che tutelano o promuovono le nostre sorelle di sesso, nel suo articolo di mercoledì scorso (“Prostitute o schiave? Cominciamo a chiedercelo”) ha spiegato i contenuti e gli effetti della legge contro la tratta degli esseri umani e di quella norma della legge sull’immigrazione, introdotta nel 1998 dalla Turco-Napolitano e reiterata nella vigente Bossi-Fini del 2002.
Essa consente alle lavoratrici e ai lavoratori immigrati e illegali intercettati dalle forze dell’ordine di denunciare chi li assoggetta a violenza grave e di ottenere, in cambio, un permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale. Se le vittime denuncianti sono prostitute, la legge prevede il loro inserimento in progetti di reinserimento che le metta in grado di abitare la società che le ospita da regolari, con un lavoro regolare.
Dunque: nel nostro come in altri paesi europei, la repressione delle lavoratrici del sesso clandestine c’è, l’aiuto a chi denuncia trafficanti e sfruttatori pure, ma è evidente che non bastano a calmare gli animi di cittadine e cittadini infuriati per via dei “bordelli a cielo aperto” che costellano il nostro paese. Né possono aiutare più che tanto i sindaci di piccole e grandi città a fronteggiare le proteste popolari. Finora le amministrazioni locali se ne sono inventate di ogni tipo per cacciare dalle strade prostitute e clienti: multe a questi ultimi mandate a casa, telecamere nascoste per coglierli nel momento dell’approccio, vigili urbani messi nei punti nevralgici per troncare sul nascere eventuali commerci. E anche questo non basta.
Il decreto-legge sulla sicurezza appena approdato in parlamento non prevede una norma anti-prostituzione di strada. Ma il ministro degli interni Maroni ha annunciato che presenterà un disegno di legge sulla prostituzione entro luglio. Praticamente dopo-domani. Poi toccherà al parlamento decidere.
Confesso di provare un certo imbarazzo a occuparmi dell’argomento dalla posizione di “cultrice della materia” quale sono. Il mio sapere sta semplicemente nel paio di libri scritti, in alcuni articoli sparsi, in saggi corposi: roba seria ma non certo di grande divulgazione. Tant’è che corro continuamente il rischio di allontanarmi dal senso comune e di apparire bizzarra con le mie idee.
Mi sono occupata di rapporti tra il femminismo degli anni Ottanta e le coeve organizzazioni delle sex worker italiane e straniere, di mercato e di legge. Quindi: niente racconti di storie dai marciapiedi, niente filippiche contro i clienti, niente denuncia dell’“indegna schiavitù”, come le femministe dell’800 impegnate nella lotta alle case di tolleranza gestite dallo Stato chiamavano la prostituzione, né denuncia delle odierne schiavitù sessuali, che pure ci sono, consistenti e in continuo aumento, come ha scritto – appunto – Isabella Rauti.
Il mio è uno sguardo freddo. Penso, per esempio, che sia stato il diluvio immigratorio a spingere molti paesi europei, (tranne il nostro), a riformare le vecchie regole sulla prostituzione in modo da spostarla tutta o quasi tutta al chiuso; e credo che questo sia stato l’unico modo per “fare fuori” le straniere clandestine. Il che è avvenuto, e avviene, non già in base alle leggi sugli scambi sessuali a pagamento bensì in base a quelle sull’immigrazione, molto più severe di quanto non siano, finora, le nostre.
Quindi, paesi come la Germania, l’Olanda, il Belgio, la Svizzera, la Spagna (che però fa caso a sé) hanno assimilato le persone prostitute a lavoratori autonomi o dipendenti che possono “adescare” i clienti mettendo un annuncio su un giornale o su internet e lavorare in proprio (basta che non disturbino la pubblica quiete), oppure che possono incontrarli nei sex club e nei bordelli legali, gestiti da imprenditori del settore.
Lo Stato entra poco nel commercio: non impone le visite sanitarie a chi ci lavora, non mette bocca sugli accordi stipulati se non per controllare che non riguardino persone straniere senza i documenti in regola e per esigere le tasse, tanto dai gestori quanto dai lavoratori. Come corollario c’è stato, e permane, la chiusura progressiva dei “quartieri a luci rosse” per restituirli al normale mercato immobiliare. Le vetrine di Amsterdam sono quasi sparite, idem l’agglomerato di San Pauili di Amburgo, nonché la maggior parte dei distretti del sesso attira-turisti. Il commercio di strada, dove c’è, è ordinato in base a leggi degli enti locali. Ma chi si prostituisce fuori dalle zone deputate lo fa a rischio di sanzioni pepate e, qualora si tratti di stranieri clandestini, paga con l’espulsione.
Questo per dire, e non sembri cinico, che di fronte alle esigenze d’ordine per tutelare in primis i cittadini dal non subire la prostituzione sotto casa, la salvezza delle prostitute dalla schiavitù passa in secondo piano. Tanto è vero che le organizzazioni, finanziate anche dalla Comunità Europea, impegnate a liberare le prostitute sottoposte a tipi di sfruttamento più o meno criminali, criticano le nuove forme di regolamentazione perché hanno peggiorato le condizioni delle irregolari, tutelate come sono solo dalle leggi sulla tratta o dai permessi di soggiorno per motivi giudiziari.
Queste misure, però, possono salvare qualcuna, forse molte, ma non certo la maggioranza delle donne ai margini del consorzio civico. A dirla chiara e provocatoria: solo una sanatoria (ma non una soltanto, bensì una serie) potrebbero affrancare le schiave, le quali se fossero tutte regolarizzate sarebbero messe in messe in condizione – anche con l’ausilio di poderosi interventi sociali – di scegliere: lasciare il mestiere o continuare a esercitare nelle strutture deputate, al chiuso o all’aperto che siano.
Ma è una provocazione, appunto, perché è impensabile che qualcosa del genere possa accadere proprio a partire da quei paesi nei quali l’ordine dato, per quanto imperfetto, rassicura coloro che con la prostituzione non vogliono avere nulla a che fare. Figuratevi in Italia. Le prostitute come le badanti? In realtà sono donne accomunate dallo svolgere un lavoro di servizio. Ma ai più si drizzano i capelli in testa anche al solo pensarci.
Eppure è proprio da noi che politiche e politici, con differenziati gradi di responsabilità all’interno della maggioranza e dell’opposizione, sono chiamati a un’occasione storica: dopo mezzo secolo possono mandare in soffitta la Legge Merlin. La quale, a causa della super inerzia riformatrice che ha caratterizzato il nostro paese in questo campo, è diventata la meno amata dalle italiane e dagli italiani. Cosicché la mancanza di decisione ha contribuito a inasprire i rapporti di convivenza e ora bisogna correre (letteralmente) ai ripari.