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In una parola / Giovanna Marini, la sua musica, la nostra politica

18 Maggio 2024
di Alberto Leiss

Pubblicato il 14 maggio nell’edizione on-line del manifesto –

Sono debitore due volte a Giovanna Marini.
Come tantissimi altri e altre ho avuto il dono di poter accompagnare anni straordinari di passioni politiche, di forti sentimenti di amicizia e di amore, con le sue bellissime ricchissime musiche. Le ho ascoltate, strimpellate e cantate con amici amiche compagni compagne. Musiche, riascoltate adesso, che sono forse la testimonianza più immediata e efficace del fatto che quella stagione – tra la metà dei Sessanta e tutti i Settanta, il ‘68-‘69 in mezzo – è stata ben di più che i soli “anni di piombo” a cui gli ideologismi reazionari di varia natura da molti decenni ormai vorrebbero ridurne la memoria.
Un altro dono molto grande è stato negli anni più recenti potermi rimettere a suonare, a imparare (forse) qualcosa di più su come farlo, e soprattutto a suonare con altre e altri. Vecchio sogno finalmente esaudito alla mia certa età. Cosa che è accaduta nella e grazie alla Scuola di musica popolare di Testaccio, qui a Roma, che lei ha contribuito grandemente a fondare, alimentare, conservare.
Purtroppo non mi è capitato di conoscerla più da vicino. Mi è rimasta molto impressa l’ultima volta che l’ho vista e sentita cantare. L’anno scorso era ospite del convegno annuale sulle musiciste oggi e nella storia, organizzato dall’Università e da insegnanti di Testaccio come Orietta Caianiello, e in un’aula ha cantato, con una voce appena più sottile e forse per questo anche più toccante quella sua grande canzone sulla morte di Pasolini.
Non posso e non voglio aggiungere molto altro a quanto è stato scritto su queste pagine (da Gianfranco Capitta, Alberto Piccinini, Giandomenico Curi, Alessandro Portelli). Ho riletto la storia di quel concerto-scandalo, intitolato Bella ciao, a cui partecipò nel ’64 al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
I canti popolari, a volte poco gentili con “lor signori”, suscitarono contestazioni tra un pubblico anche un po’ borghese (ma senza provocare vittimismi da parte dei contestati, anzi…). E ci scappò pure una denuncia per vilipendio alle forze armate. Michele Straniero aveva cantato una strofa della canzone anarchica Gorizia evidentemente presente nella “tradizione” ma non contemplata nei testi ufficiali dello spettacolo. E mi piace riprodurla in questi tempi bellicisti: «Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù».
Non che la colpa delle guerre sia principalmente dei graduati degli eserciti, ma certo se reclute, soldati e ufficiali si rifiutassero di farle, le guerre, non sarebbe una gran cosa?
La figura della musicista Giovanna Marini credo ci dica qualcosa anche per il contenuto politico non solo di testi e note, ma per il metodo del suo lavoro di ascolto e raccolta di una cultura delle classi “subalterne” – ma questa parola non mi piace: diciamo meglio “oppresse” da chi ha più potere e più animo egoistico – che andava scomparendo. Ne resta, grazie al lavoro suo e di tanti altri intellettuali ricercatori, la memoria.
Ma quella lezione di metodo dovrebbe parlare anche alla politica sensibile all’utopia democratica, che si è chiamata pure socialista e comunista. La quale non può produrre un vero cambiamento in meglio delle vite di tutti se non conosce sul serio e direttamente che cosa pensano, desiderano, sanno, esprimono, sognano le persone che continuano a essere “oppresse” e che partecipano poco o nulla al potere.
Bisognerebbe avere di nuovo voglia di andare in giro con un “magnetofono”, mettersi in ascolto, registrare, meditare. E semmai agire con qualche probabilità in più di non sbagliare?
(Certo, continuando spesso a cantare e suonare)

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