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Microcritiche / Il film di Paola Cortellesi e la memoria femminile

17 Novembre 2023
di Letizia Paolozzi

Ivano (Valerio Mastrandrea), ex tombarolo, capelli imbrillantinati all’indietro, da il suo buongiorno di prima mattina. Uno schiaffone applicando al contrario il proverbio “Con le buone maniere si ottiene tutto”. Il film C’è ancora domani inizia così, con lui che si gira nel letto e “je mena”.
Mena Delia (Paola Cortellesi), la moglie, la madre, colei che eroga cura. E cibo e fatica. La maternità è ancora il destino femminile. D’altronde, Delia delle botte porta i segni ma senza arrabbiarsi. Piuttosto, passivamente sopporta. Sopporta perché vittima o perché, da quando mondo è mondo, gli equilibri, anzi, gli squilibri, sono questi: tra dominanti e dominati; vittime e carnefici; oppressori e oppressi?
La figlia, in età da marito, rimprovera la madre vittima dei soprusi domestici. In qualche modo, la incita a ribellarsi. Tuttavia, pensa che la sua sistemazione la otterrà grazie al matrimonio. E a un marito capace di sottrarla a una condizione di miseria. Nel frattempo, gli altri figli di Delia e Ivano, due maschietti, si azzuffano (dal buongiorno si vede il mattino?) mentre il suocero, infermo, non si alza dal letto. E quando si alza combina guai.
Sfilano nel film di Paola Cortellesi (per la prima volta anche regista) l’antico innamorato, l’amica confidente (perfetta nel ruolo Emanuela Fanelli), tanti maschi sordi alla parola femminile; tante femmine che hanno rinunciato a parlare. Oppure no, decise a ciacolare tra loro per confidarsi i sogni e le maldicenze nel cortile di un palazzo testaccino.
È il 1946, pochi mesi prima del referendum Monarchia-Repubblica del 2 giugno. Delia, la madre, si muove nel sottoscala tra pareti scrostate e camice rattoppate. Siamo in un Dopoguerra difficile per gli uomini e soprattutto per le donne.
Lo sottolinea la sceneggiatura (della stessa Cortellesi, di Giulia Calenda e di Furio Andreotti) raccontando il prezzo che le italiane hanno pagato all’emancipazione, la lotta per ottenere la propria libertà.
Emancipazione che viene raggiunta a fatica, mai compiuta. Sempre lì oscillante, in equilibrio instabile, con la forza difficile di un sesso che deve strapparsi dall’amore (e dalla dipendenza).
Il film disegna questo scenario parlando di cose serie in tono “lieve”; il tono di Paola Cortellesi capace di passare dalla chiave neo-neorealista un po’ calligrafica al musical surreale alla farsa della commedia all’italiana.
A riprova del successo, 12.935.971 euro di incassi in tre settimane, sale piene, risate, lacrime, applausi finali del pubblico.
“Solo” per la bravura degli attori, il tocco della regista, il conforto dei luoghi comuni o non, piuttosto, per qualcosa di più profondo, di più oscuro come la violenza patriarcale?
Violenza che non è confinata nell’Italia postfascista ma rimanda all’oggi. In questo senso C’è ancora domani ha un finale di cui non diremo ma che suggerisce la possibilità del riscatto femminile, la speranza di un Paese diverso grazie alle donne.
Una storia di emancipazione che apre alla “rivoluzione simbolica” del femminismo e che, proprio grazie al femminismo, è diventato un film nel quale possono riconoscersi spettatrici e spettatori.

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