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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Cosa va fatto perché non succeda più?

31 Maggio 2023
di Fulvia Bandoli

Questo articolo è stato pubblicato su Ytali

Guardo da venti giorni i video e le immagini della mia pianura ed è uno strazio che non si ferma. Due alluvioni nel giro di quindici giorni, la seconda molto più devastante della prima e su un’area ancora più estesa. Quattordici fiumi hanno rotto gli argini in Romagna, venticinque in tutta l’Emilia Romagna, sedici persone ci han rimesso la vita, e abbiamo perso migliaia di case, campi, orti, vigne, stalle, animali affogati senza che si potesse far nulla, officine, fabbriche, negozi. Al ritirarsi graduale e lento delle acque quello che sembra certo è che la geografia di queste terre e di queste campagne e colline è stata radicalmente stravolta.

La causa non è una sola, sono molteplici: un evento estremo di portata straordinaria dovuto al cambio climatico (mai era caduta a monte e sul pedemontano così tanta pioggia in pochi giorni; nella precedente alluvione, quella del 1939, era caduta sulle stesse aree una quantità minore di acqua e in quegli anni sicuramente il territorio era meno dissestato); la scarsa manutenzione di fiumi, argini e torrenti; l’anomalo consumo e cementificazione di suolo agricolo negli ultimi decenni e la mancata rinaturalizzazione delle zone pedemontane e collinari e un eccessivo abbandono delle zone collinari.

Diciamo subito che tutte queste cause, eventi estremi uniti alle manchevolezze, sono presenti in molta parte del territorio italiano. L’Italia è da sempre un paese fragile, dissestato e ad alto rischio di frane e alluvioni almeno in un terzo della sua superficie. Un altro terzo è a rischio medio. Questo significa che tra alto (otto milioni) e medio rischio (cinque milioni) sono circa dodici milioni gli italiani che vivono in aree fragili. E il cambio climatico e l’intensità di fenomeni estremi ne accentuano la fragilità.

Consultate i dati Ispra o qualunque altro dato statistico sulle alluvioni e sulle frane dovute al dissesto idrogeologico e ne troverete circa 140 piuttosto gravi, da quella del Polesine fino a quella delle settimane scorse. Io, nei miei anni di lavoro a dirigere il settore ecologia del Pci e poi del Pds e poi in Parlamento, ho visitato almeno trenta alluvioni gravissime in varie parti d’Italia (Genova e Liguria varie volte, Calabria e Sicilia, Toscana, Piemonte, Lombardia, Friuli, Marche) e mi sono battuta con altre e altri ecologisti per trent’anni perché i governi nazionali e regionali assumessero finalmente la messa in sicurezza del territorio come la più grande opera pubblica nazionale. Battaglia evidentemente persa, fino a questo momento. Nessun governo l’ha assunta, finanziata, realizzata. E gli esiti di questa mancata scelta sono davanti a tutti e tutte noi.

Noi ecologisti scientifici (tutt’altro che ideologici, come ci ha chiamato Meloni giorni fa) avanziamo da oltre quarant’anni proposte concretissime e voglio riassumerle proprio in questi giorni, perché, guardando tutta quell’acqua e quel fango, è ancora più incomprensibile come nessuno le abbia mai prese sul serio.

Le risorse necessarie alla prevenzione e alla messa in sicurezza del nostro territorio nazionale che si aggiravano dieci anni fa sui quaranta miliardi di euro, oggi sono sicuramente aumentate a cinquanta/sessanta miliardi. Quelle realmente investite negli ultimi trent’anni sono state appena uno o due miliardi di euro. Al contrario, per indennizzi, ricostruzioni e riparazione dei danni a posteriori si sono spesi (male e molto spesso per ricostruire negli stessi luoghi interessati da inondazioni e frane) 52 miliardi di euro in cinquant’anni e, se sommiamo anche gli indennizzi post terremoti, la cifra arriva a 213 miliardi di euro! Una cifra mostruosa! Che segnala meglio di molte altre quanto il nostro Paese non abbia mai scelto la prevenzione e la cura e come a causa di questa non scelta si siano spese il triplo delle risorse.

Serve allora passare dall’incuria alla cura del territorio, dalla speculazione selvaggia alla pianificazione sostenibile, dall’edilizia costruttiva all’edilizia di recupero restauro e manutenzione, dall’intervento a posteriori alla prevenzione. E oggi va aggiunto un elemento: il cambiamento climatico accentua gravità e intensità dei fenomeni, le emissioni in atmosfera nonostante gli impegni di tutti i governi mondiali non vengono diminuite e i tempi sono sempre irresponsabilmente spostati in avanti. Dunque, anche le opere di mitigazione sono da mettere nel conto della prevenzione.

Non possiamo più sprecare soldi e natura, non possiamo perdere altre vite umane, non possiamo far vivere milioni di persone in condizioni di insicurezza. Sul territorio poggia tutto, le persone, le strutture civili, le case, le fabbriche, i negozi. Tra economia ed ecologia e tra ecologia e nuova occupazione vi sono molti più intrecci di quelli che tanti economisti assai poco innovatori e riformatori riescono a vedere: un territorio sicuro per i cittadini e per le attività produttive è la condizione prima di qualsiasi sviluppo possibile, e un paesaggio di qualità è la ricchezza fondamentale dell’Italia.

Ecco allora da dove bisognerebbe finalmente cominciare:

L’adozione da parte del governo di un piano decennale ordinario per la messa in sicurezza stimabile in cinquanta/sessanta miliardi di euro totali e finanziato annualmente dal dieci per cento delle risorse che deriverebbero dalla Patrimoniale (due miliardi su un totale che si aggirerebbe sui quindici/venti miliardi), da un taglio delle spese militari quantificabile in circa 1,5 miliardi, e anche dallo storno delle risorse attualmente destinate al Ponte sullo Stretto di Messina, un’opera che in questo momento ritengo tutt’altro che prioritaria.

Un altro canale di finanziamento del Piano decennale è sicuramente costituito da una parte di risorse derivanti dal Pnrr.

Una norma nazionale che i Comuni e le Regioni dovrebbero recepire in tempi brevissimi volta a impedire nuove costruzioni in tutte le aree di pertinenza fluviale e nelle aree golenali e contigue e il consumo ulteriore di suolo agricolo e se necessaria la delocalizzazione di alcune attività.

L’istituzione di un Servizio civile giovanile Regionale (della durata di sei mesi e retribuito) dedicato a lavori di manutenzione e ripulitura in accordo con i Comuni e la protezione civile. Spesso si parla di New Deal, ebbene ricordo che nell’America di quegli anni, con grandi problemi di dissesto idrogeologico e subito dopo la grande crisi del 1929, il 14 marzo 1933, dieci giorni dopo essersi insediato alla Casa Bianca, il presidente Roosevelt istituì i “Civilian Conservation Corps”. trecentomila americani dai 18 ai 25 anni, disoccupati, furono messi al lavoro nei boschi e sui fiumi. Negli anni successivi, in varie campagne, due milioni di giovani lavoratori, complessivamente, piantarono duecento milioni di alberi, ripulirono il greto dei torrenti, ristabilirono aree golenali. Dunque si può fare, traduciamolo in italiano e proviamo a farlo.

Il rafforzamento della filiera delle competenze, con un forte tasso di innovazione sia nella formazione delle nuove professioni verdi (sono sempre di più le università che offrono corsi di laurea in difesa e manutenzione del territorio, quali La Sapienza di Roma, Udine, Pavia) sia nella valorizzazione di geologi (oggi poche centinaia, con una flessione del 17 per cento nelle iscrizioni ai corsi di laurea dal 2002 al 2009), ingegneri naturalistici, meteorologi e climatologi, architetti paesaggisti, urbanisti ecocompatibili, agricoltori con funzioni di presidio del territorio. È necessario un incremento in quantità e qualità di questi nuovi lavori verdi.

Incentivi fiscali alle attività agricole nelle aree a rischio idrogeologico e nelle aree svantaggiate. Affidamento diretto dei lavori di manutenzione e cura del territorio, di riforestazione, di rinaturalizzazione agli agricoltori e alle aziende agricole, come peraltro già previsto dalla L.97/94 e dalla L. 228/01 dando corso a una idea di azienda agricola multifunzionale quasi mai attuata. Con la possibilità di sgravi fiscali fino al 55 per cento sul modello di quelli che furono a suo tempo previsti per i lavori di manutenzione in edilizia (con i necessari adeguamenti) e che diedero un ottimo esito. Assegnazione, tramite bando pubblico, delle aree agricole di proprietà pubblica ai giovani agricoltori e contributo per il reinsediamento delle aziende agricole.

Per finire direi che tra crescita e decrescita, io mi sono sempre sentita stretta: un dilemma che non risolve i problemi così come li vedo nella realtà. Da diversi anni, essendo io una persona di sinistra, penso che una Sinistra nuova sia solo quella che sa dire e scegliere cosa può ancora crescere (svilupparsi) e cosa invece non può più crescere (svilupparsi), perché il limite delle risorse è una realtà già da anni e se ne sono accorti finalmente anche gli economisti. Mettendo al centro il tema della qualità sociale e ambientale dello sviluppo anche il lavoro e l’occupazione di conseguenza si trasformeranno e aumenteranno in alcuni settori mentre in altri diminuiranno, e figure lavorative oggi inedite dovranno affermarsi e altre usciranno di scena.

Se procediamo per grandi settori direi che sicuramente devono e possono svilupparsi tutti i servizi materiali e immateriali al territorio e la messa in sicurezza dal dissesto idrogeologico e del patrimonio edilizio in aree sismiche, i servizi alla città e alla persona, il trasporto di merci e persone su ferro e mare, la manutenzione e il recupero e dunque l’edilizia di qualità e di manutenzione, le reti di qualsiasi genere. Mentre non possono più crescere l’industria automobilistica come è stata finora, l’edilizia di costruzione, il commercio basato solo sui grandi centri commerciali, il trasporto su gomma in tutte le sue forme, il consumo di territorio agricolo e la cementificazione e impermeabilizzazione del suolo agricolo.

La domanda dunque non è se i romagnoli ce la faranno, perché sì, ce la faremo a rialzarci dal fango anche se per alcune famiglie e imprese e piccole attività economiche sarà un’impresa titanica. La domanda per tutti (cittadini, governo nazionale, Regioni, Comuni, osservatori, giornalisti, commentatori, associazioni di categoria, sindacati ecc.) è un’altra: cosa va fatto perché non succeda più, a noi e ad altre popolazioni? Io credo vadano fatti gli interventi che ho proposto, senza i quali non ci sarà sicurezza né per noi né per chi verrà dopo di noi.

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