Pubblicato sul manifesto il 31 gennaio 2023 –
La guerra oltre a produrre morte, distruzione e atrocità di ogni genere, si accompagna inesorabilmente alla diffusione delle opposte propagande e delle bugie, e alla progressiva militarizzazione del linguaggio.
Abbiamo paura che il conflitto in Ucraina, amplificato criminalmente dall’invasione russa, finisca in una guerra mondiale nucleare. In realtà la dimensione della guerra è già “mondiale”: i paesi occidentali e Nato devono decidere fino a che punto appoggiare con le armi (e con quali) l’Ucraina, mentre i recenti oscuri episodi bellici in Iran confermano che il teatro si allarga, per non dire delle forze armate russe, turche, israeliane, europee ecc. che si fronteggiano in Medio Oriente e in Africa.
Ma la cosa ormai certa è che si sta producendo la militarizzazione del linguaggio. Il che significa militarizzazione delle menti e dei sentimenti.
Quando leggo sui nostri quotidiani le appassionate descrizioni dei carri armati Leopard, definiti “gioielli” di una tecnica volta a dare morte nel modo più efficace, quando si accusa di intelligenza col nemico chiunque sollevi qualche dubbio sull’opportunità di contribuire a un’escalation di cui non si vede la fine, penso che ormai il demone bellico si sta impadronendo di noi.
Giorni fa ho “postato” su facebook una intervista a padre Zanotelli (uscita su Il Riformista, autore Umberto De Giovannangeli) che criticava in nome della pace la “follia” della guerra e l’invio di nuove armi, premettendo un mio “Zanotelli ha ragione…”.
Un amico, che ha un certo gusto per la polemica, ha commentato con una semplice domanda: “Sei sicuro?”. Lì per lì non me ne sono accorto (frequento fb con lentezza). Ma alla sera, a teatro, lo stesso amico mi ha sollecitato: “non mi hai risposto…” aggiungendo che Putin non va giustificato in alcun modo. Eravamo a qualche fila di poltrone di distanza e la musica stava per cominciare. All’uscita non ci siamo rivisti.
Ho quindi cercato di rispondere su fb. Mi ha colpito e invogliato anche la discrezione di quella interlocuzione: sei proprio certo di quello che affermi?
Quel che pensa delle mie risposte lo scriverà, o me lo dirà, se vorrà. Ma continuo a pensare al contesto in cui questo scambio è avvenuto. Un concerto di musiche di Šostakovič, i quartetti 6,7 e 8 per la precisione: il quartetto Prometeo sta eseguendo, nei programmi della Filarmonica romana, l’integrale delle 15 composizioni dell’autore (che avrebbe voluto arrivare a 24, uno per ogni tonalità).
Dei tre soprattutto il 7 e l’8 sono molto belli, per me. Composti tra il 1956 e il 1960, quando, dopo la morte di Stalin, sembrava che in Urss potesse esserci un certo “disgelo” – ma il ’56 fu l’anno dell’intervento in Ungheria. L’ottavo, uno dei più noti, è un condensato della personalità complessa e drammatica di Šostakovič. Il tema principale deriva dalle note rappresentate dalle iniziali del suo nome. È dedicato alle “vittime del fascismo” e uno dei momenti più intensi è una danza che enfatizza un tema ebraico, klezmer. Riferimento al nazismo, ma anche al fatto che persecuzioni e discriminazioni antisemite non mancavano nell’Urss. Del resto lo stesso autore scrisse che si trattava di un’opera “ideologicamente riprovevole”.
Cose che in parte ho imparato ascoltando l’amico citato, Jacopo Pellegrini, musicologo che anche quest’anno offre le sue conferenze domenicali legate ai programmi in corso (se interessa, scrivere a: [email protected] e interloquire con la gentilissima Loredana Rondelli).
La (mia) piccola morale della favoletta è che un modo per resistere alla guerra è anche discuterne senza rinunciare al garbo (ancor meglio se aiutati da buona musica).