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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Chi ha paura del mondo che cambia?

4 Febbraio 2023
di Letizia Paolozzi

La protesta delle donne in Iran

Di fronte allo sciopero della fame dell’anarchico Cospito fino al rischio di morte, il guardasigilli Nordio è convinto che lo Stato debba mostrare fermezza, la stessa – ricorda – esibita durante il rapimento di Aldo Moro. A parte la dubbia analogia, allora non ci furono interrogativi, dubbi da parte della classe politica (se non da parte di Craxi e di qualche democristiano). Si sbarrò la strada a chi suggeriva “né con lo Stato né con le Br” per difendere la cosa più preziosa, la vita di un essere umano.
Adesso, i fantasmi ritornano, quasi fossero il rimorso di lutti poco o nulla elaborati: dal crollo del Muro a quello delle Torri gemelle, dalla pandemia alla guerra, macerie e cambiamento – perché certo, un cambiamento profondo si è verificato e continua a verificarsi – procedono appaiati, come per l ‘angelo di Benjamin, spinto dal vento nel futuro ma con lo sguardo rivolto al passato.
Forse è vero che in questo itinerario spettrale a dominare è la paura: del virus, del rischio nucleare, di un futuro incerto. Di qui le risposte riduttive, poco flessibili. E la seduzione di un ritorno al passato (nei regimi autocratici, con i valori affermati da Putin o dal patriarca Kirill per il quale “l’Occidente è sinonimo di corruzione”), con il contrasto sempre più profondo tra autocrazie e democrazie nonché l’affermazione di nuovi autoritarismi, accompagnata dal rimpianto (maschile) di una posizione dominante. E perduta. Assistiamo a una reazione violenta nei confronti della libertà femminile.
Mettiamola così: al mondo che cambia una delle possibili risposte è la chiusura, il non voler vedere. La guerra, quella dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ma prima ancora i conflitti “locali” in Afghanistan, nello Yemen, Siria, Mali, Camerun, Repubblica Democratica del Congo, Birmania, Nagorno- Karabakh e altri sicuramente ne ho dimenticati, diventano il sipario chiuso sull’aspirazione alla “pace mondiale”. La svuotano di senso.
Gli scontri in Israele (la quarta stagione della serie “Fauda” commenta realisticamente il percorso dell’odio al di qua e al di là dei muri, nei campi di Jenin, Ramallah, oltre i confini del Libano, Siria, Iran), i missili nord-coreani, le preoccupazioni per Taiwan descrivono uno scombussolamento dell’ordine globale.
Eppure, in questo scenario, le donne non scompaiono. Non vengono risucchiate. Continuano a stare nel cambiamento. Sempre che si aguzzi lo sguardo, come dice Mario Tronti, su ciò che “questa guerra non ci fa vedere quando si ammanta di apparenze ideologiche”.
Sono donne a guidare la domanda di libertà in Iran, a Kabul; e donne – poche o tante – quelle che cercano di riparare la tela squarciata della convivenza. Ancora donne raccontano un diverso modo di fare politica (Jacinda Ardern, con le dimissioni da premier neozelandese e prima, quando ha interpretato il suo ruolo istituzionale con uno stile singolare, evitando di scimmiottare il pugno duro del “sesso forte”).
Questo non significa che dalle nostre parti ci sia un maschile immobile e un femminile in movimento. Dietro lo stereotipo della “crisi del maschio” e oltre al revanscismo dei nostalgici del patriarcato si ascoltano anche parole diverse. Ma basta il segnale della denatalità per comprendere quanto si sia allargato lo spazio ansiogeno e ristretto quello della speranza, della scommessa, dell’assumersi un rischio. D’altronde, dopo il colpo di Stato in Cile, molte compagne decisero di rinviare la maternità. Magari lo stato di apprensione non è l’unico veleno a diffondersi nella società, ma per vincerlo, per affrontare la trasformazione del mondo gli individui, maschi e femmine, avrebbero bisogno di un’idea, un paradigma, un modello di riferimento: qualcuna ha parlato della cura del vivere, e della capacità di non rimuovere il conflitto senza farsi travolgere dalla guerra. Se ci sono altre idee, altre proposte, che si facciano sentire!

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