Quando si dice sindaco si pensa subito al Primo cittadino. Ma anche a figure più modeste, funzionari attenti ai conti di una piccola attività commerciale. La radice greca della parola è impegnativa: syn – dike, con giustizia. Dike era la dea, figlia di Giove e di Temi (anche lei votata a legge e ordine), che sorvegliava i comportamenti umani.
Mi è capitato, del tutto imprevedibilmente, di collaborare alcuni anni intensi con il sindaco di Genova Giuseppe Pericu, che se ne è andato lunedì scorso a 84 anni. Ho avuto grande simpatia e stima per lui. Docente di diritto amministrativo, avvocato esperto, consulente ascoltato, parlamentare impegnato nei tentativi di riforma istituzionale mai positivamente conclusi. Soprattutto un liberalsocialista che prendeva sul serio sia la parola socialista sia quella liberale. Deluso da quella inconcludenza non volle essere ricandidato in Parlamento e nel ’97 accettò di correre, vincendo, per il governo della città di Genova.
Tre anni dopo – l’Unità era chiusa per la grave crisi gestionale (non ben sindacata?) – accettavo la proposta di Anna Castellano, assessora alla comunicazione e promozione, di collaborare con il Comune in vista del G8 previsto nel giugno dell’anno successivo. Forse è stata la tensione estrema di quei giorni – si sperava all’inizio in una bella festa, e fu la tragedia che sappiamo – a farmi sentire legato a lui, che con altri amministratori aveva fatto il possibile per organizzare quell’evento favorendo la libertà di discutere e di manifestare, e gestendo bene i finanziamenti per abbellire la città. Rimanendo poi impotente, dietro quelle orribili grate intorno al centro cittadino, di fronte alle violenze, prima dei black-block, poi della polizia. Pericu ha sempre rivendicato in seguito l’esigenza di una inchiesta parlamentare che chiarisse le dinamiche politiche di quelle violenze: da garantista ripeteva che i processi potevano individuare solo responsabilità personali. Con ogni probabilità non le più gravi.
Non si era perso d’animo, però, e si impegnò per superare quel trauma proseguendo una politica di rilancio di Genova, che aveva alle spalle una lunga fase di declino industriale e portuale, di forte calo demografico. Con il tramonto di una identità fortemente legata al ruolo della classe operaia.
La bellezza della città ritrovata e una nuova apertura culturale potevano essere una via di uscita, sostenute dagli investimenti e dalle iniziative del 2004, con Genova capitale della cultura europea? Forse sì. Almeno in parte.
Ma Beppe Pericu aveva anche idee interessanti sulla politica. Alla fine del secondo mandato (2007) pubblicammo con Donzelli un libretto ottimisticamente intitolato “Genova nuova. La città e il mutamento”. È un intervista al sindaco, ma volle che anch’io comparissi come coautore. Nell’ultimo capitolo, prima di un dialogo tra lui e Renzo Piano sul futuro di Genova legato al mare e alla centralità europea e globale del porto, Pericu ribadiva alcune idee “programmatiche”. Dare, per esempio, il voto amministrativo (almeno) agli immigrati residenti, realizzare un decentramento “federale” ma basato sulle città e i Comuni, non sulle Regioni (a loro vola accentratrici), riformare la politica riconoscendo il valore del “servizio” che un cittadino offre alla comunità (nel suo caso per un intero decennio) così che non contrasti con una professione. Ma si era reso conto che qualche “professionista” della politica è necessario.
Mi mancheranno i successivi aperitivi insieme al bar Mangini, in piazza Corvetto, conditi con un’arte del pettegolezzo che solo in qualche caso passava leggermente dall’arguzia alla micidiale battuta definitiva.