Pubblicato sul manifesto il 14 giugno 2022 –
Il quorum mancato per i referendum sulla giustizia ha provocato commenti molto soddisfatti di chi era più contrario alla consultazione e all’ipotesi – remota – che potessero prevalere i sì. Ho ascoltato la responsabile del Pd caricare di significato positivo e “saggio” solo la scelta di chi si è astenuto. Certo, altri commenti hanno legato questo risultato negativo alla bassa partecipazione anche al voto comunale. L’astensionismo aumenta da anni. Ma la crisi della democrazia rappresentativa e della politica che concorre alla rappresentanza è constatata ormai come una malattia cronica per la quale non si conoscono rimedi.
Il 20 per cento scarso è il risultato più basso in questo tipo di consultazioni. Tuttavia sono sempre quasi 10 milioni di elettori e elettrici che si sono cimentati su un tema essenziale come quello della giustizia che funziona male, molto male, in questo paese. Una politica e una informazione che in genere seguono spasmodicamente sondaggi fatti più o meno bene su questionari – nella migliore delle ipotesi – rivolti a mille o duemila persone, forse dovrebbero dedicare qualche pensierino in più su questo campione meno esile, padrone di una evidente conoscenza del senso dei quesiti, per quanto “tecnici” e complessi.
L’altalena dei sì e dei no ha fatto capire, per esempio, che è molto più forte la critica sul funzionamento della magistratura, rispetto alle preoccupazioni garantiste sulle pene e la carcerazione preventiva.
Nel cerchio degli amici e amiche di sinistra ho incrociato una discussione quasi unicamente rivolta al dubbio se andare a votare tutti no, o astenersi. Io ho scelto di votare e di votare anche quattro sì (ho votato scheda bianca sulla questione della separazione delle carriere). Proprio perchè è aperta una discussione parlamentare sulla riforma, una pressione “dal basso” – come ha argomentato non certo un Masaniello anticasta come Sabino Cassese – mi sembrava importante.
Ancora più importante sarebbe una riflessione seria sulla crisi della democrazia.
Anche la disaffezione per i referendum è constatata senza porsi troppe domande. Pur avendo in questo caso votato, credo che aver trasformato il referendum abrogativo in uno strano congegno per produrre nuove leggi a furor di popolo, tagliuzzando qua e là le norme esistenti, sia uno snaturamento.
Lo dicono in pochi perché c’era stato un consenso quasi unanime – Corte costituzionale in testa – quando questo uso referendario distorto è stato introdotto per forzare il Parlamento a approvare una legge elettorale maggioritaria, che sembrava l’unico rimedio alla crisi della politica già allora – anni ’80 e ’90 – assai manifesta.
Abbiamo visto quanto questa idea, accompagnata dalla retorica della “seconda” se non “terza” repubblica e al mito pasticciato di governi o premier “eletti” direttamente, abbia dimostrato i propri limiti. Sempre pochi dicono – lo ha fatto in tv l’altra sera padre Zanotelli – che un altro elemento di disaffezione dipende dal fatto che anche quando le proposte referendarie hanno vinto – come nel caso dell’acqua pubblica – le istituzioni se ne sono fatte un baffo.
Per ridare voce ai cittadini bisognerebbe inventare altre forme di proposta – referendum, leggi popolari ecc. – con effetti vincolanti sulla rappresentanza locale e nazionale, e meccanismi di partecipazione e informazione rigorosi. Se ne parla (poco) da tempo, ma se non erro non si è fatto nulla.
Ma soprattutto bisognerebbe vedere che la crisi riguarda i fondamenti delle culture politiche che nell’ultimo secolo hanno dato forma alle nostre democrazie “liberali”. Oggi ne esaltiamo bellicosamente i “valori”, ma è altra cattiva retorica.