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Microcritiche / Ribellarsi al male in Iran

15 Marzo 2022
di Ghisi Grütter

IL MALE NON ESISTE- Film di Mohammad Rasoulof. Con Ehsan Mirhosseini, Kaveh Ahangar, Shaghayegg Shourian, Alireza Zareparast, Baran Rasoulof, Salar Khamseh, Mohammed Valizadegan, Mohammad Seddighimehr, Zhila Shahi, Germania, Repubblica Ceca, Iran 2020. Fotografia Ashkan Ashkani.

Il film “Sheytan vojud nadarad”, il titolo originale, si articola in quattro episodi sullo stesso tema – e cioè sulla pena di morte – ma con vicende e ambientazioni molto diverse. Solo il quarto episodio ha un nesso con il secondo e potrebbe essere la sua prosecuzione una ventina di anni dopo.
Purtroppo nel mondo la pena di morte è ancora applicata – e così è in Iran – e il regista ha voluto rappresentare quattro storie contro questa legge mostrando il condizionamento delle vite, non tanto di coloro che sono condannati, ma di quelli che sono costretti a venirne a contatto in modi e ruoli differenti.
Ne “Il male non esiste” tutti i protagonisti hanno un segreto, nonostante le apparenze. Nel primo episodio Heshmat (interpretato da Ehsan Mirhosseini) è descritto come un “bravo ragazzo”, un padre affettuoso, un marito premuroso che aiuta la moglie nell’accudimento della suocera. Lavora prevalentemente di notte, si sveglia tutte le notti alle tre. Ma che lavoro fa? Le descrizioni minuziose di ogni gesto della giornata, come fare la spesa, andare in banca, andare a prendere la bimba a scuola, cucinare e pulire casa, sono narrate in tempo reale e diventano l’ossessione di una vita rassegnata fatta di atti ripetitivi, di routine, senza alcun desiderio né un “look foward”. L’ambientazione è decisamente urbana, i quartieri sono intasati dal traffico e le case mostrate sono abitate dalla piccola borghesia, non troppo addobbate le pareti, ma con il tappeto a terra anche nella cucina.
Il secondo episodio mostra uno squarcio della vita di leva, cioè del servizio militare obbligatorio (fino al 2005 lo era anche in Italia). I commilitoni dormono in una stanza con letti a castello in situazione di semilibertà. Devono imparare a obbedire agli ordini, di qualsiasi natura essi siano. A Pouya (interpretato Kaveh Ahangar) è stato ordinato di “togliere lo sgabello” all’impiccato che sarà giustiziato fra poche ore, ma lui non vuole farlo. Rifiutandosi rischierebbe la corte marziale pertanto si tormenta, piange, cerca di contattare persone importanti attraverso la sua ragazza in cerca di trasferimento, tra l’aiuto o la derisione degli altri commilitoni.
Il terzo episodio mostra Javad (interpretato da Mohammad Valizadegan) che raggiunge per il suo compleanno Na’na (Mahtab Servati), la ragazza amata che vive in campagna. Javad ha avuto tre giorni di licenza (una licenza-premio per che cosa?) e le ha comprato un anello di fidanzamento. Ma non è sereno, qualcosa sembra tormentarlo, nonostante la famiglia lo accolga amorevolmente. In questo episodio sono molto belle le immagini del verde, uniche in tutto il film, punteggiate da antiche casette in legno, povere all’esterno ma arredate con cura e piene di libri.
Il protagonista dell’ultimo episodio Bahram (interpretato da Mohammad Seddighimehr) è l’unico anziano ed è anche malato. È un medico che da anni vive con sua moglie (interpretata da Zhila Shahi) in un luogo isolato nelle montagne, quando la visita di una nipote (interpretata da Baran Rasoulof), figlia di sua sorella in rientro dall’Europa, lo costringerà a svelare il suo segreto che non può, o non vuole, più occultare. Qui il panorama è brullo, desertico, i colori sembrano terre bruciate dal sole.
I protagonisti maschili sono combattuti tra la propria morale e il dovere e sembrerebbe che, vivendo sotto un regime che pratica l’ingiustizia, l’unica forma di libertà sia ottenuta con la disubbidienza.
Quello che, invece, esce rafforzato da questo film è il ruolo della donna. Gestisce la casa, i soldi, si prende cura degli anziani, ma soprattutto accudisce il proprio uomo assistendolo con amore e devozione.
Gli spazi, sono claustrofobici e restrittivi e quando sono panorami naturali sono desertici, aspri e agorafobici, senza via di scampo.
Una notazione musicale: il regista ha utilizzato la versione di “Bella ciao” cantata da Milva, come un ulteriore incitamento alla resistenza. Così afferma Mohammad Rasoulof in una intervista: «Spinto da esperienze personali, volevo raccontare storie che chiedevano: come cittadini responsabili, abbiamo una scelta quando facciamo rispettare gli ordini disumani dei despoti? Come esseri umani, fino a che punto dobbiamo essere ritenuti responsabili del nostro adempimento di quegli ordini? Di fronte a questa macchina dell’autocrazia, quando si tratta di emozioni umane, dove ci lascia la dualità di amore e responsabilità morale?». Una sorta di risposta a La banalità del male di Hannah Arendt.
La pellicola ha vinto l’Orso d’Oro alla 70ma Berlinale, ma il regista Mohammad Rasoulof non ha potuto ritirare il premio a causa di restrizioni politiche e poiché il film è stato censurato in patria. Così ha commentato Jeremy Irons, presidente della giuria: «Un film insieme poetico e devastante che pone ognuno di noi di fronte alla responsabilità delle nostre scelte».

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