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Microcritiche / Fuga in macchina incontro al dolore

10 Febbraio 2022
di Ghisi Grütter

STRINGIMI FORTE – Film di Mathieu Amalric. Con Vicky Krieps, Arieh Worthalter, Samuel Mathieu, Juliette Benveniste, Anne-Sophie Bowen Chatet, Erwan Ribard, Aureia Petit, Sacha Ardilly, Aurèle Grzesik, France 2021. Fotografia Christophe Beaucarne.

Sceneggiato e diretto dall’attore-regista Mathieu Amalric, che nel 2010 ha ricevuto un premio per la regia del film “Tournée” al Festival di Cannes, “Stringimi forte” è un libero adattamento della pièce teatrale Je reviens de loin di Claudine Gale del 2003. Amalric negli stessi anni in cui esordiva come attore ha iniziato a girare cortometraggi, tra la metà degli anni Ottanta e i primi anni Novanta, e il suo primo lungometraggio del 1997 si intitolava “Mange ta soupe”. Dopo sono arrivati i film “Lo stadio di Wimbledon” (tratto dal romanzo omonimo di Daniele Del Giudice) del 2001 e “La Chose publique” del 2003. In Italia Amalric è forse più conosciuto come attore: ha lavorato con registai famosi come Arnaud Desplechin, Olivier Assayas, Julian Schnabel, Wes Anderson e Roman Polanski, tanto per citarne alcuni.
Il suo film “Stringimi forte” – suo ottavo lungometraggio – è considerato tra i migliori titoli visti all’ultimo Festival di Cannes. Ma vediamo di che si tratta.
La prima scena mostra la protagonista che si ritrova con delle foto sparpagliate sul letto dell’albergo di montagna a Port de la Bonaigua nei Pirenei. Clarisse (interpretata da Vicky Krieps) se n’è andata via da casa una mattina presto senza dire nulla, prima che la famiglia si svegliasse. Davanti a lei ora c’è solo la strada, dietro due figli e un marito a cui tocca trovare le parole per giustificarne l’assenza. Ma cosa nasconde questa fuga? Da cosa fugge Clarisse?
Il film narra un periodo di circa sei mesi di vita di questa donna che fa la traduttrice e ha sposato Marc un operaio affettuoso e atletico. È madre di due bambini: di Lucie (Juliette Benveniste e Anne-Sophie Bowen Chatet,), una pianista piena di talento (una futura Marta Argerich francese?) e di Paul (Sacha Ardilly e Aurèle Grzesik), un affettuoso ed esuberante ragazzino. Il racconto è fatto di parti de-costruite, fratturate, scomposte e ricucite in un continuo flashback e flashforward in cui la realtà e l’immaginazione si confondono.
Clarisse guida una vecchia station-wagon (sembra uscita da un quadro iperrealista di Robert Bechtle degli anni’60) e attraversa panorami diversi della Francia (Occitania, Nuova Aquitania, Bretagna). Vuole vedere il mare mentre immagina i suoi figli crescere e Marc invecchiare. Ma non è affatto come sembra e forse Clarisse non è mai partita.
La sua fuga nasconde un evento doloroso e drammatico. Quanti modi esistono per elaborare i lutti? E quanto tempo ci vuole per superare l’abbandono?
Così racconta il regista: «Laurent Ziserman, mio caro amico, voleva mettere su uno spettacolo, ma dovette poi rinunciare. Ricordo allora che una sera, forse come addio al suo progetto, mi consegnò il libro da cui intendeva trarre lo spettacolo. Era Je reviens de loin, una commedia che non conoscevo, scritta nel 2003 da Claudine Galea. L’ho letto in treno e mi sono messo a piangere, singhiozzando come un bambino. Non mi succedeva da molto tempo, ho persino dovuto nascondere il viso sotto la giacca. Poi anche le produttrici hanno letto la pièce e ne sono state conquistate, chiedendosi come avrei fatto ad affrontare l’argomento del libro che era a priori molto letterario, sensibile e poetico. E che oltretutto non era mai stato messo in scena! Questo aspetto in particolare mi è piaciuto molto, è stato come una chiamata…»
La musica è forte, incalzante e passa dalle composizioni più note – come Per Elisa di Ludwig van Beehtoven – a pezzi più intensi e martellanti di Györg Ligeti e di Arnold Schönberg.
Il film è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani – SNCCI con la seguente motivazione: «Mettendo in scena un viaggio in macchina come fosse una lunga elaborazione del lutto, Amalric racconta il potere dell’immaginazione – e dunque del cinema – come unico cicatrizzatore possibile dei traumi, e lo fa attraverso un racconto che sa essere minimale e stratificato allo stesso tempo: un melodramma che sussurra con tragica dolcezza il bilancio di una vita e della sua fuggevolezza».
Se anche la sceneggiatura in alcuni momenti non è del tutto convincente, la bravura dell’attrice lussemburghese Vicky Krieps (“Il filo nascosto”, “L’isola di Bergman”) con la macchina da presa eternamente sul suo volto, riesce a coinvolgere gli spettatori.

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