A Sassuolo Nabil Dahari uccide Elisa Mulas, che l’aveva lasciato, assieme alla madre e a due dei suoi figli. A Reggio Emilia, Juana Cecilia Hazana, peruviana, operatrice in una cooperativa di assistenza, figlio di un anno e mezzo, viene accoltellata da Mirko Genco dopo un tentativo di strangolamento. Lei era andata via sperando che il tempo avrebbe appianato i contrasti. Mirko Tomkow, a Viterbo, accoltella suo figlio per punire la madre. Lei era preparata a morire.
“I mortali devono ammazzare, pensano che se non ammazzano non sono uomini” (Maria Zambrano “Una tomba per Antigone“).
I mortali, gli uomini cattivi per natura? Nelle guerre, negli attentati terroristi, nell’impoverimento della terra, nell’esilio dei migranti, nella spremitura del lavoro. Lo ripetono i film, le serie, la bambolona di “Squid Game” con la cantilena: Uno, due, tre stella mentre falcia decine di poveri, indebitati, disperati giocatori.
L’albero della violenza lo conosciamo. Attenzione però; dal suo fusto si slanciano branche che sostengono una sua forma specifica, quella contro il sesso femminile, le lesbiche, le persone trans e queer che verrà nominata nella giornata del 25 novembre e poi con il corteo nazionale di Non una di meno di sabato 27, complicato dal virus e dalla stretta del governo sulle manifestazioni.
L’elenco cupo di donne uccise, ferite, maltrattate dimostra che il muro simbolico della divisione tra i due sessi si mantiene eretto nonostante le lotte del femminismo, le proteste per uscire dall’invisibilità, il cambiamento (lento, certo) di mentalità di tanti uomini.
Il 6 novembre Adelina Sejdini, nata a Durazzo, si suicida lanciandosi da un cavalcavia ferroviario. Malata di tumore, nel permesso di soggiorno non le era stato più riconosciuto lo stato di apolide eppure aveva fatto arrestare i suoi sfruttatori – 40 persone arrestate e altre 80 denunciate – appartenenti alla mafia albanese che controlla lo sfruttamento della prostituzione di mezza Italia. Più volte aveva chiesto di poter ottenere la cittadinanza italiana.
Perché accade tutto questo? Il problema è che non solo circolano dei violenti ma ci troviamo di fronte un sistema incapace di proteggere le vittime, anzi, pronto a soccorrere i violenti. In modo diretto o indiretto, subdolo o palese. Nella scuola, nel lavoro, nelle organizzazioni politiche, nel sindacato, nei tribunali, tra le forze dell’ordine, lo sguardo resta maschile, il linguaggio sessista nel quale le donne sono “la madre, la figlia, la sorella”.
D’altronde, se solo una su sette ha denunciato quello che si rivelerà essere il suo assassino (lo dice la relazione appena approvata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio, presieduta da Valeria Valente), significa che un sesso trema, si rassegna, non crede al sostegno del territorio, delle istituzioni, non si fida della giustizia.
Esempi? Juana Loayza viene uccisa dall’uomo, lo stalker finito due volte in carcere per non aver accettato la separazione. Ottenuti gli arresti domiciliari, l’uomo patteggia a due anni, con sospensione condizionale della pena nonostante abbia appena violato il divieto di avvicinamento alla sua vittima. Dopodiché diventa assassino.
La marocchina Salsabila, alla quale il marito imponeva il velo e che chiudeva a chiave in casa, trova un pm di Perugia che chiede l’archiviazione della sua denuncia (per maltrattamenti) dal momento che “il rapporto di coppia viene caratterizzato da forti influenze religiose-culturali alle quali la donna non sembra avere la forza o la volontà di sottrarsi”. Quanto alla condotta di costringerla al velo integrale “rientra nel quadro culturale, pur non condivisibile in ottica occidentale, dei soggetti interessati”.
Infine, rispetto ai maltrattamenti “dalle dichiarazioni rese la donna non sarebbe mai stata minacciata di morte, né avrebbe subito aggressioni fisiche tali da costringerla alle cure sanitarie” (un braccio spezzato, una lussazione dell’anca, questo sì che sarebbe stato “prova del reato”!). E poi non ha chiesto aiuto ai Servizi sociali. Ribatte l’avvocato difensore di Salsabila che la sua assistita nulla sapeva dell’esistenza di queste strutture. E non poteva recarsi all’ospedale perché prigioniera in casa.
Ribellarsi? Portare via il figlio, andare a vivere in un’altra casa, succede con il lieto fine di “Maid”; ma si tratta di una serie. La realtà è un’altra cosa.
Per questo, a cambiare non deve essere solo il privato, il familismo, l’autoritarismo; è lo spazio (politico) dove si amministrano le differenze che va trasformato. Perché gli uomini non sono cattivi per natura ma è la società che hanno costruito (con il corteo di magistrati, pm, questure, burocrazie varie) a far sentire le donne eternamente fuori posto: non accolte, non credute, non ascoltate.