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Microcritiche / Psicodramma borghese in tre piani

26 Settembre 2021
di Ghisi Grütter

TRE PIANI – Film di Nanni Moretti. Con Margherita Buy, Nanni Moretti, Riccardo Scamarcio, Elena Lietti, Adriano Giannini, Alessandro Sperduti, Alba Rorhwacher, Denise Tantucci, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Italia 2021. Musiche Franco Piesanti, scenografia Paola Bizzarri, fotografia Michele D’Attanasio –

Eskhol Nievo è uno scrittore israeliano contemporaneo che nel 2015 ha scritto il romanzo Tre piani da cui Moretti ha tratto il film omonimo distribuito da RAI Cinema e co-prodotto da Rai con Fandango e Canal+. È il primo film del regista che non nasce da una sua idea originale (sceneggiatura di Nanni Moretti, Federica Pontremoli e Valia Santella), cosa che ha incuriosito molto il pubblico che è corso a comprarsi questo libro.
L’idea di mettere a confronto le vite di alcune famiglie borghesi che vivono nello stesso condominio ma non hanno rapporti tra di loro, è stata ripresa da Nanni Moretti trasponendola in un villino a tre piani nel quartiere delle Vittorie a Roma. Il piano terra (rialzato) ha il suo giardinetto “non troppo ricco e non troppo povero” (scriveva Italo Insolera in Roma moderna) mentre l’ultimo piano ha un ampio terrazzo. L’area di quel quartiere prima di essere edificata (Esposizione Universale del 1911) era usata dall’esercito che vi svolgeva esercitazioni militari e per questo era chiamata Piazza d’Armi. Essendo il terreno di proprietà dello Stato, non vi è stata quella speculazione edilizia che ha colpito molti altri quartieri romani. Infatti, nel Piano Regolatore era stato introdotto il principio secondo il quale i fabbricati alti fino a 24 metri si dovevano alternare a villini di due o tre piani.
Essendo comunque il carattere degli abitanti tendenzialmente individualista, molti vivono il condominio – anche se solo di tre piani – come una sorta di frustrazione per non possedere una casa isolata e infatti, neanche si conoscerebbero se non fosse per quelle saltuarie partecipazioni alle assemblee di condominio per la manutenzione dei beni comuni.
Nella scelta delle storie di vita nel film “Tre piani” c’è un’allegoria della triade freudiana dell’Es, dell’Io e del Super-io: l’edificio è come un microcosmo dell’anima. Nel romanzo ci sono anche altri riferimenti alla psicoanalisi che Moretti ha prudentemente tralasciato. Al piano rialzato ci sono le pulsioni e gli istinti impersonificati da Lucio (Riccardo Scamarcio), sospettoso e macho, che vive con la moglie Sara (Elena Lietti) e la loro bambina Francesca. A quel piano ci sono due appartamenti – i villini di solito hanno un unico appartamento ogni piano – e di fronte a loro abita una coppia di anziani Renato e Giovanna (Paolo Graziosi e Anna Bonaiuto) che ogni tanto tengono la piccola Francesca. Amano la piccola come fossero i suoi nonni e Renato, in particolare, si diverte a giocarci anche se ormai ha spesso dei momenti di vuoto, perde gli oggetti e dimentica perfino il proprio nome.
Al piano di mezzo, abita l’Io, che cerca di conciliare i desideri e la realtà. Monica (Alba Rorhwacher) partorisce Beatrice, una bella e dolce bambina, mentre il marito Giorgio (Adriano Giannini) è all’estero perché lavora nel settore edile. Monica si sente abbandonata e insicura, la responsabilità di una figlia la rende vulnerabile e comincia a vedere e sentire cose inesistenti. Così a quel piano abita anche la fantasia, la simbologia e la solitudine.
Sopra a tutti abita il Super-Io: Dora (Margherita Buy) e Vittorio (Nanni Moretti) sono moglie e marito entrambi magistrati. Crescono il loro unico figlio maschio in modo rigido e severo sbagliando tutto, tanto è vero che i comportamenti sconsiderati del figlio Andrea (Alessandro Sperduti) lo condurranno addirittura in prigione. Tra padre e figlio si alzerà una barriera invalicabile, Vittorio deciderà di non voler più avere nulla a che fare con il figlio e costringerà Dora a scegliere tra loro due.
Sul finale il rigore del Super-Io sarà attenuato dal bisogno di Dora di comunicare e di condividere con il marito tutte le sue esperienze di vita, quindi di farlo partecipe anche delle sue emozioni. Infatti, una volta rimasta sola, continuerà a lasciargli messaggi sulla sua segreteria telefonica confessandogli i propri sentimenti.
La maternità e, più in generale, la genitorialità sono le tematiche emergenti del film: sembra che le scelte dei genitori condizionino in modo inequivocabile, e talvolta irreparabile, le vite dei figli. E questa sembra essere un po’ un’ossessione del regista che aveva fatto affiorare già in altre sue pellicole, come in parte ne “La stanza del figlio” del 2001.
L’altro elemento del film da sottolineare è il dato sociale delle vite narrate. Anche se, a parte i giudici, non è dato di sapere i mestieri che svolgono gli abitanti, dal gusto degli arredi, dalle librerie piene di libri e dalle immagini dei luoghi di lavoro, si evince l’appartenenza a una borghesia di professionisti – sempre meno rappresentata nel cinema oggi appannaggio di vite ai margini, di banlieu, di storie periferiche -, dietro la cui parvenza tranquilla, si agitano vite tormentate, litigi, insoddisfazioni. Nanni Moretti critica aspramente questo tipo di borghesia chiusa nelle sue case, nel suo benessere economico, nella sua indifferenza, attaccata alle proprie convinzioni e alle proprie regole. Forse saranno le nuove generazioni che dovranno cercare modi di vita diversi e alternativi, anche se ciò che il film mostra non dà grandi speranze: partire per la Spagna con l’Erasmus? ritirarsi in campagna a produrre il miele?
Il film racconta gli eventi fotografandoli in tre diversi momenti durante una decina d’anni. Alla fine le tre famiglie finiranno per essere costrette a lasciare quel villino, ognuna per ragioni diversi.
Molto bravi gli attori adulti, in particolare Margherita Buy che, abbandonata l’immagine della ragazza nevrotica e insicura, acquista qui una maturità interpretativa, e Riccardo Scamarcio sempre più specializzatosi in maschio latino impulsivo e imprudente.

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