Eccomi alla prima rubrica dell’anno nuovo. Ormai sono molte le volte in cui ho compiuto questo passaggio, e non posso evitare di chiedermi: non è assurdo proseguire ancora per i prossimi dodici mesi, quattro volte al mese, con l’intenzione sproporzionata di scrivere qualcosa dotata di senso?
Ma non ho scelto di finire.
Eccesso di autostima? Vizio dell’io?
Certamente gratitudine per la gentilezza di chi mi ospita, soddisfazione di essere una particella di questo miracolo giornalistico. Allora auguri a chi forse mi legge, e compra e sostiene questo quotidiano, e a tutte e tutti coloro che lo fanno, a dispetto di quella cattiva politica che minaccia di insidiarne il percorso.
Mi motiva anche un diffuso disagio sul destino del significato delle parole, l’ansia che circonda l’avventura del linguaggio. Sensazioni balzate in primo piano con il trauma prodotto dal virus, ma che hanno alle spalle, mi pare, una lunga incubazione.
Ho già osservato la moltiplicazione di libri di successo che trattano la storia delle lingue, l’etimologia delle parole, le torsioni dei significati, e di rubriche giornalistiche simili a questa. Ne cito due.
Il settimanale L’Espresso da un po’ di tempo apre il suo sfoglio, dopo la imperdibile vignetta di Altan, con una pagina dedicata a “La parola”. Molto impegnativa quella scelta da Wlodek Goldkorn nell’ultimo numero: progresso. Un testo ottimista, e forse ci vuole di questi tempi: la fiducia illuminista nel progresso della scienza e della cultura, contraddetta dalle catastrofi del ‘900 (dalla Shoah a Hiroshima), starebbe tornando. Il ‘900 è stato anche il secolo delle grandi lotte contro il colonialismo, contro il patriarcato, contro la devastazione ambientale. E se oggi siamo circondati da politici populisti proprio il virus, obbligandoci alla fiducia nella scienza e nella solidarietà, annuncia che “è tornato il progresso”. Ne sarebbe un sintomo la vittoria dell’uomo “da tratti ottocenteschi: razionale, moderato” Biden, sul nemico del bene comune e menzognero Trump. Speriamo che sia vero.
Un’altra parola molto comune, ma di altrettanto se non maggiore peso specifico, è quella scelta da Nunzio Galantino per la sua ultima rubrica “Abitare le parole”, sulla Domenica del Sole24 ore: calendario. Un termine dall’etimologia incerta e contraddittoria: il latino ne fa un banale “libro dei conti”, il greco invece una “sorta di breviario dell’universo”. I giorni scendono per noi dai cieli e la scansione del tempo ci mette in relazione con la divinità. Esiste però anche la concezione surrealista del tempo: gli orologi molli di Salvador Dalì raffigurano instabilità, mutevolezza, frammentazione. Forse anche malinconia? Ma pure Galantino vuole essere ottimista: a nessuno è preclusa la possibilità di dare al suo tempo “un senso compiuto”.
Dopo aver letto sul manifesto l’intervista che gli ha fatto Guido Caldiron, e averlo visto citato nello scambio tra Annarosa Buttarelli e Sarantis Thanopulos di sabato scorso, mi sono procurato il “Dizionario della dissoluzione” di John Freeman (Edizioni Black Cofee,2020), un libro che raccoglie e analizza 26 parole con un fine politico ben delineato: riappropriarsi del loro significato e del senso del linguaggio per farne strumento di lotta contro la colpevole distruzione del mondo e di ogni giustizia. È interessante che l’autore, per scrivere il suo testo, si sia ritirato in un isolamento volontario di un anno, vivendo una condizione simile a quella che in cui ci ha costretto il virus. Forse anche per questo quello che dice ci sembra così illuminante anche se pensato prima.