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In una parola / Riguardando “Gran Torino” del vecchio Clint

9 Luglio 2020
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 7 luglio 2020 –

Ho appena finito di rivedere in tv quel bellissimo film che è Gran Torino, diretto, prodotto e interpretato da Clint Eastwood. Se ho qualche lettore, e se per caso non lo avesse ancora visto, gli consiglierei di farlo. Specialmente se maschio.
È passato un decennio, ma direi che resta una delle più forti e attuali testimonianze, da parte di un uomo, della gravità e complessità di quell’universo di violenze che ci circonda, tutte riconducibili, in qualche modo, a una matrice maschile.
La guerra, il razzismo, lo stupro, le comunità di gruppo e le gang fatte di competizione e gerarchia violenta, i riti di passaggio a cui il giovane maschio deve sottoporsi, le convenzioni del linguaggio tra “uomini veri”, al bar o dal barbiere. E il paradosso tra la “forza” della figura paterna e la sua concreta e impotente assenza.
Troppa retorica, nel finale in cui la rinuncia alla violenza e alla vendetta, fino al proprio sacrificio, appare la via giusta per riaffermare la legge e una speranza di convivenza pacifica?
Può darsi. Ma a me sembra una buona, ottima retorica. Così la vivo, con la testa, il cuore, il corpo. È questo il momento in cui noi uomini dobbiamo trovare il modo di rendere conto, ognuno per sé, e tutti insieme, di una cultura millenaria che questo vortice di violenze ha autorizzato. Anzi lo ha eretto a regola di una convivenza sempre fondata, anche nella apparente pace domestica, su una sorta di “equilibrio del terrore”.
Forse l’emozione prodotta da quelle immagini è stata più forte per questa situazione inedita. Il virus ha aperto una cesura nelle nostre vite e vediamo noi stessi e il mondo in una luce diversa. Forse vediamo meglio anche l’inaccettabilità della violenza?
Sabato ho passato un pomeriggio a parlare, via Zoom, con molti amici della rete di maschile plurale. Alcune considerazioni “politiche”: la reazione delle istituzioni e degli stati al virus mette in mostra, oltre agli estremismi al limite dell’irresponsabilità criminale dei Bolsonaro o dei Trump, anche il pericolo di un “neopatriarcato” tecnocratico e capitalistico, che aumenta esponenzialmente il controllo e la limitazione della libertà di ognuno? Oppure rivela che il potere formato sulla figura del “grande patriarca” è solo ormai un feticcio, dietro cui si nascondono incertezze, paure, incompetenze, e in definitiva la conferma di un crollo dell’autorità maschile?
Ma le parole più interessanti sono venute da chi ha raccontato i propri personali sentimenti di paura e di incertezza: di fronte al pericolo della malattia, all’invadenza delle norme e dei divieti, alla imposizione della sospensione di relazioni affettive primarie. E anche le esperienze di elaborazione di questi stati mentali. Spesso aiutati dalla forza del desiderio: dell’insegnante che ritrova i propri alunni, veicolando e scambiando parole ricche di senso – al di là dei programmi didattici – anche attraverso la distanza delle tecnologie informatiche. Dell’innamorato che ritrova l’amata anche a dispetto del lockdown. Dell’uomo anziano che è contento di potersi finalmente occupare, prendersi cura, della vecchia madre.
Torna spesso il discorso della cura. Più che un “lavoro”, che sarebbe giusto condividere finalmente con le donne che lo fanno da sempre, un altro modo di intendere la vita e le relazioni con gli altri, le altre. Con il mondo.
Discussione avvenuta anche col proposito di raccogliere idee, esperienza, proposte, e invitare uomini e donne a discuterne in un incontro pubblico – speriamo possa avvenire in presenza – alla ripresa autunnale.
Sarà l’occasione di una testimonianza maschile più incisiva?
Se c’è riuscito, dieci anni fa, un conservatore repubblicano americano…

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