Pubblicato sul manifesto il 21 luglio 2020 –
Dunque mentre scrivo non si sa ancora bene se si giungerà a un accordo decente tra gli stati dell’Unione Europea sui fondi per reagire alla nuova crisi economica – più grave della non pienamente risolta recessione aperta nel 2008 – causata dalla pandemia. Mi iscrivo, azzardando, tra gli ottimisti: in fondo è stato fatto un notevole passo avanti mettendo da parte le norme rigide sull’indebitamento previste dal “patto di stabilità” e con la proposta franco-tedesca del “Recovery Fund”. È vero che alla folle imprevidenza degli umani (soprattutto se maschi) ci sono pochi limiti, ma ora una clamorosa rottura dalle conseguenze imprevedibili e forse disastrose sarebbe veramente poco comprensibile.
La complessa discussione in corso a Bruxelles fa comunque riflettere su come, nell’era in cui sembra cambiare di giorno in giorno, se non di ora in ora, tutto ciò che ci circonda, un vero cambiamento che abbia a che vedere con gli schemi mentali, culturali, politici che prevalgono nelle nostre teste sia enormemente difficile.
Si dirà: ma questo è vero per coloro che rappresentano interessi potenti, finanziari, capitalistici, che non vogliono rischiare di perdere leadership traballanti: soggetti che da un vero cambiamento avrebbero solo da perdere.
Eppure mi ha colpito un lungo articolo di Slavoj Zizek (sul numero del 10/16 luglio di Internazionale:Una prospettiva maoista sul nostro tempo, tratto dal libro da poco uscito presso Ponte alle Grazie, Dal punto di vista comunista, trentacinque interventi inattuali): l’autore, com’è noto, è un filosofo presentato come tra i più critici dello stato presente delle cose. Si tratta di un denso ragionamento sulle idee di Mao a proposito dei rapporti tra “contraddizione principale” e “contraddizioni secondarie”, con la giusta idea (di Zizek) che queste relazioni (per esempio tra contraddizioni di classe, di sesso, sull’ambiente e sui diritti) in realtà sono più fluide, cangianti nella loro “gerarchia”, e interconnesse di quanto non apparisse nella “dialettica” maoista (che pure in un certo senso viene rivalutata…). Ma tra le righe si capisce come il filosofo, alla fine, rimanga legato alla convinzione che la vera “contraddizione principale” resti quella “lotta di classe” tra lavoro e capitale teorizzata da Marx due secoli fa.
Opinione certo non del tutto infondata, ma ha ancora senso riproporla, sia pure quasi di soppiatto, con lo stesso linguaggio?
Allora mi sembrano più convincenti le osservazioni di Monsignor Nunzio Galantino, che analizzando la parola sulla Domenica del Sole 24 Ore, dice che “il cambiamento autentico, quello che trasforma, parte dalla consapevolezza di quello che si è e delle condizioni nelle quali si vive”. In altri termini: non basta invocare a vanvera il cambiamento come automatico rimedio ai mali che affliggono, e nemmeno avventurarsi in gerarchie ideologiche tra le contraddizioni “oggettive” che ci sembra di riconoscere. Bisogna anche essere capaci di comprendere come conflitti, desideri, resistenze si riflettono nella nostra mente, cuore, corpo.
Galantino termina citando Brecht (“Non aspettarti nessuna risposta, oltre la tua”), ma prima è passato per Seneca e perfino Eraclito. Questo fa pensare – insieme alle vecchie infatuazioni maoiste che anch’io ho conosciuto – a quanto sia importante, per cambiare le cose, ripensare una tradizione.
Con giudizio, però. Una cara amica a questo punto sbufferebbe: certe idee, specialmente quando dimostrano di aver funzionato tutt’altro che bene, vanno lasciate in soffitta. Bisogna inventarne di nuove.
Sono decenni che sento e leggo, dalle parti delle sinistre ma non solo, che è necessario “cambiare paradigma”, parola di origine greca che vuol dire più o meno “indicazione chiara”, in qualche modo normativa.
Se continua a non succedere, magari chiedersi perché?