Pubblicato su manifesto il 16 giugno 2020 –
Sulle implicazioni filosofiche, scientifiche, e derivanti dall’uso più comune, della parola potenza, si potrebbe scrivere un’intera biblioteca. A me la parola è venuta in mente, insieme al suo contrario, impotenza, per un motivo semplice: la lettura dell’editoriale domenicale del direttore di Repubblica Maurizio Molinari, che dedica l’attenzione dovuta a quanto sta succedendo in Libia e nel Mediterraneo. Grazie all’appoggio militare della Turchia – ne ha scritto sul manifesto Alberto Negri – il capo del governo libico riconosciuto dall’Onu e più o meno sostenuto dall’Italia, Serraj, a quanto pare ha già avuto la meglio sul “signore della guerra” Haftar.
Per sottolineare il ruolo decisivo del suo paese e della sua politica Erdogan ha dispiegato una manovra aero-navale davanti alle coste libiche, con almeno 17 caccia – scrive Molinari – e una dozzina di navi. Ma ancora più interessante è il racconto della ricerca di una intesa – ora – tra i principali alleati di Serraj, da un lato, e Haftar, dall’altro: Erdogan e Putin. Si parla di un vertice tra i ministri degli esteri e della difesa dei due paesi per vedere in che modo – brutalizzo – spartirsi la Libia, pur tenendo conto di altri attori regionali e internazionali importanti: dall’Egitto al mondo arabo, dagli Usa alla sostanzialmente inerte Europa.
A me, poco competente sulla politica internazionale, è solo capitato di pensare con quanta potenza, militare, e quindi anche economica, e volontà politica, si interviene in questa area del mondo, mentre nello stesso mare, che sarebbe anche “nostro”, assistiamo a una vergognosa generale impotenza di fronte alla situazione disperata di centinaia, migliaia, decine e centinaia di migliaia di persone che soffrono e muoiono per le conseguenze di una serie di guerre e guerriglie che gli sono arrivate addosso, accettando il rischio di affogare o di essere rinchiusi – senza alcuna colpa – in qualche “campo profughi”: sempre meglio, come pure accade troppo spesso, che essere portati o riportati nei lager libici.
In realtà più che di impotenza bisogna parlare di colpevole scelta, da parte delle singole nazioni europee – compresa la nostra – e delle stesse istituzioni europee.
Nelle molte discussioni, per me – confesso – piuttosto noiose, sugli “stati generali” in svolti a Roma, forse manca una considerazione importante. Ovvio interrogarsi su quali scelte economiche, sociali e culturali dovranno essere messe in campo per ottenere i finanziamenti europei, e magari per migliorare un po’ le nostre vite e quelle di figli e nipoti. Ma non sarebbe legittimo accostare a una strategia di sviluppo economico e sociale anche uno sguardo sul mondo che ci circonda, quindi abbozzare qualcosa che possa assomigliare a una politica estera? Non esistono relazioni in fondo assai strette tra queste cose?
L’Italia ha avuto la sua responsabilità nel disastro dell’intervento in Libia, ha suoi soldati su quel territorio e soprattutto un suo gigante economico, l’Eni. Provo un vero disagio quando vedo le paginate di pubblicità ecologica di questa multinazionale a partecipazione statale. Le vite delle persone distrutte o in pericolo per le vicende libiche non rientrano in alcuna possibile visione ecologica?
Ma il disagio aumenta molto di più di fronte al silenzio dalle parti del governo e della sua maggioranza, oltre forse a un comportamento più accorto, su tutta la materia che tanto scandalo aveva sollevato giustamente ai tempi del non rimpianto Salvini. I suoi decreti “sicurezza” sono ancora legge. I rapporti con la Libia non si capisce – io non capisco – quali siano concretamente.
Mi piacerebbe essere contraddetto. Ma non ci spero.