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In una parola / Come risuona il passato

22 Aprile 2020
di Alberto Leiss

Ferdinand Ries

Pubblicato sul manifesto il 21 aprile 2020 –

Si sprecano – ma potrebbe essere un guadagno – le considerazioni su come l’emergenza del virus ci scombina la percezione del tempo. Privati dei ritmi usuali che scandivano fino a ieri le nostre vite, cerchiamo di costruircene altri. È difficile perché le nuove scansioni ritmiche faticano a consolidarsi. Un po’ come ballare un valzer lento che sul più bello si trasforma malignamente in una polka scatenata… o in un lezioso minuetto.
Cambia anche il modo di percepire gli stessi fenomeni: guardiamo con occhi e gola diversi il cibo, ci ricordiamo di vecchi libri dimenticati, scopriamo quanto è bello disporre di un ampio terrazzo. Ascoltiamo con altro orecchio le musiche predilette. O detestate.
La musica, naturalmente, è una bella consolazione.
In rete c’è una vasta offerta: la famiglia Bennato ci offre una nuova canzonetta incontestabile: “La realtà non può essere questa”. Da Napoli giungono gustosissimi coretti di giovani spiritosi sulle vite con la mascherina. Deutsche Grammophon schiera una sequenza di pianisti e pianiste che dalle abitazioni eseguono per noi musiche antiche e contemporanee. Paradossalmente l’isolamento e gli ambienti domestici sembrano aumentare l’intimità di queste offerte musicali via streaming.
Sabato ho guardato a ascoltato due giovani amici dei quali ho già parlato – Rebecca Raimondi e Alessandro Viale – che dalla loro casa in Germania hanno suonato due sonate per violino e pianoforte di Ferdinand Ries (op. 83, in re maggiore) e di Beethoven (la “Primavera”). Proposta interessante per due motivi, oltre che per la bravura degli esecutori.
Ries è stato un più giovane allievo e amico di Beethoven, gli era spessissimo accanto, gli capitava di interpretare come bravissimo pianista le sue opere, e svolgeva affettuosamente anche mansioni da “segretario”. I suoi scritti e appunti sono una delle principali fonti sulla biografia del compositore. Questo legame eccezionale forse non gli ha giovato per la conoscenza e l’apprezzamento delle sue belle musiche, inesorabilmente messe a confronto con quelle del celebre e geniale maestro. (E l’altro giorno il paragone gli è stato tutt’altro che sfavorevole).
Inoltre queste due sonate – composte nei primissimi anni dell’800 – sono state eseguite su strumenti d’epoca. Un fortepiano Broadwood del 1814, e un violino (Hamm) del XVIII secolo.
Confesso di non amare molto l’utilizzo di questi antenati del pianoforte moderno (sui violini non mi pronuncio, ma mi pare che le differenze del suono siano meno vistose), soprattutto per autori preromantici e romantici che già erano protesi a utilizzare tutte le potenti e raffinate risorse timbriche dei sempre più perfezionati strumenti già della loro epoca.
Certo è molto interessante provare a ricostruire la sonorità reale e lo stile con cui erano concepite e eseguite nei salotti sette e ottocenteschi le musiche che oggi ascoltiamo nelle sale da concerto sui poderosi Steinway e Bosendorfer. E l’esecuzione di sabato è stata piacevolissima.
Mi resta un dubbio: chi ascoltava tra ‘700 e ‘800 i primi pianoforti restava meravigliato e estasiato – a parte i soliti conservatori – dalla loro potenza e duttilità rispetto ai clavicembali.
Oggi ascoltare la “Patetica” di Beethoven, con i sui scultorei accordi (ma anche le delizie cristalline di Mozart!), su quelle più gracili tastiere produce un effetto – almeno a me – esattamente contrario. Non è un “tradimento” degli autori, nonostante le ottime intenzioni filologiche?
Ma la sensibilità e bravura di Rebecca e Alessandro mi ha convinto: godiamoci le interpretazioni sia “antiche” sia “moderne”. Forse arricchirà una nozione di memoria e di critica che mi pare scarseggi.

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