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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Noi e il virus, tra guerra e libertà

11 Marzo 2020
di Letizia Paolozzi

Ogni giorno circolano richiami alla guerra. S’intende, una guerra simbolica, un’ondata di nostalgia da “Vogliamo i colonnelli” o magari, dopo un lungo periodo in cui era stata mandata in soffitta per minore interesse e partecipazione, compare un rinnovato amore per la guerra?
Risuonano inviti ad abbandonare la debolezza (rivolti innanzitutto al premier Giuseppi) giacché combattiamo contro “un nemico invisibile”. Dunque “non fermiamoci, ancora una stretta”. Ci vuole “l’intervento dell’esercito” che veramente già prova a praticare, non so con quali risultati, la militarizzazione del territorio ai posti di blocco della zona rossa, cercando di interpretare le autocertificazioni farlocche. Si citano “lacrime e sangue” promesse da Churchill per la vittoria: la lotta contro il nazismo viene paragonata a quella contro il coronavirus. Persino il mite Walter Veltroni, ospite di “Otto e mezzo”, abbonda nei paragoni bellici.
In guerra è importante avere il pugno di ferro. Anche nelle epidemie? A Wuhan, per milioni di uomini e di donne, di anziani e di bambini il pugno di ferro sembra aver funzionato. Ma nel paese dove il panico si esprime correndo al supermercato ovvero per noi italiani un po’ anarchici, cinici, bastian contrario, criticoni, piccoli narcisi arroganti sarebbe più complicato. D’altronde, imporre “tutti chiusi in casa senza uscire” è diverso dalla raccomandazione “Uscite solo se è strettamente necessario”.
E’ la differenza tra dominare e sperare che il convincimento arrivi. Con una speciale forma di autocoscienza.
In Cina il controllo e il comando pare abbiano abbattuto il virus. Quel modello sta producendo insane nostalgie. Urbano Cairo, presidente di Rcs e editore del “Corriere della Sera” lo dice chiaro quando si immagina “provvedimenti “alla cinese”. Ma attivare metodi autoritari non adombrerà scenari di regime?
Veramente, in televisione ripetono da giorni le misure restrittive: Non infilatevi le dita in bocca; state distanti un metro dal vostro vicino; lavatevi le mani. Il vago riflesso d’ordine si è rivelato piuttosto quello dei parenti, degli amici del Mezzogiorno che hanno accolto (con malagrazia) i fuggitivi dell’Intercity Milano-Salerno, ribattezzato Cassandra Express.
Certo, ora come ora “la democrazia è messa in quarantena. E forse non potrebbe essere altrimenti” (sul “Manifesto” Norma Rangeri). Però davanti a me la democrazia si manifesta in grande confusione, barcollante di fronte a un nemico che si chiama stupidità – ha ragione l’artista ravennate Marco Martinelli – che si allarga come “una peste”.
Dicono: Andiamo a fare la settimana bianca (costi quel che costi); No al sacrificio dell’apericena (se non bevo lo shottino ne va della mia way of life). Sul “Mattino” domenica scorsa una foto in prima mostrava i baretti affollati di Napoli con il titolo cubitale: “Smettetela”.
Suppongo che per abbattere la stupidità non sia sufficiente opporgli un discorso pubblico niente affatto bellicoso, privo di enfasi e di retorica aggressiva, retorica che praticano Putin, Trump e a suo modo Salvini. In effetti, la comunicazione del governo giallo-rosso ha seguito un percorso incerto, brancolante tra minimizzazioni del Covid19 e bozze di decreti sfuggite da Palazzo Chigi o dai vari palazzi regionali, per finire subito preda dei Tg serali.
Si potrebbe esigere obbedienza: come succede in ogni guerra che esclude le nature indipendenti. E privilegia i sottomessi, i burocrati. Sul “Foglio” Giuliano Ferrara assicura che è il tempo di agire “da cittadino conformista” perché “la disobbedienza non è più una virtù”. Di sicuro, l’obbedienza, vale a dire ottemperare agli ordini, mette tranquilli, elimina gli elementi di conflitto, toglie l’ansia. E cosa c’è di meglio in una situazione di tanto grave incertezza se non che altri decidano per te?
Ma francamente non c’è e non ci può essere consenso alla spiegazione che sono tutti morti per overdose i dodici detenuti delle carceri italiane. Soprattutto conoscendo le condizioni di sovraffollamento in cui vivevano.
In coda agli atteggiamenti rigidi e marziali, contro un avversario sfuggente, sconosciuto, globale, pronto a modificarsi e a nascondersi (nel corpo degli asintomatici) non sarebbe più vantaggioso, più efficace prendere coscienza, responsabilizzarsi?
Fichte credeva che la guerra realizzasse la libertà dei singoli. Adesso, sarebbe un gesto di libertà rinunciare alle proprie abitudini. Una libertà che serve a sé, agli altri, a far arretrare il virus. Dopo questa storia, magari scopriremo di avere più cura, più attenzione, più responsabilità di fronte al nostro essere fragili, transitori, così deperibili e umani. Magari tornerà una passione per la relazione che ci tiene insieme. Che può fare a meno del comando di un generale supremo

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