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Microcritiche / Il mafioso iperrealista di Scorsese

20 Novembre 2019
di Ghisi Grütter

THE IRISHMAN – Film di Martin Scorsese. Con Robert De Niro, Al Pacino, Joe Pesci, Harvey Keitel, Ray Romano, Bobby Cannavale, Anna Paquin, Stephen Graham, Stephanie Kurtzuba, Jack Huston, Jesse Piemons, Marin Ireland, Domenick Lombardozzi, Larry Romano, Dominick La Ruffa Jr., Jeremy Luke, Joseph Russo, Kathrine Narducci, USA 2019. Fotografia Rodrigo Prieto, musica Seann Sara Sella, scenografia Regina Graves, costumi Sandy Powell-

Le tematiche ricorrenti nei film di Martin Scorsese vanno ricercate nelle sue origini italiane e cattoliche: il sentimento di redenzione, la coscienza della famiglia, il senso di colpa.
Sembra, inoltre, che nella maggior parte dei suoi film Scorsese si interroghi sulla possibilità di condurre un’esistenza cristiana in un mondo dominato dal male. Se poi coniughiamo tutto ciò con il virtuosismo tecnico, abbiamo il cinema di questo grande cineasta che firma quest’ultimo epico gangster movie.
“The Irishman” è tratto dal libro di James Brandt I Heard You Paint Houses ad opera dello sceneggiatore Steven Zaillian, ed è basato sulla vera storia di Frank Sheeran detto, appunto, l’irlandese.
Sheeran, un veterano della Seconda Guerra mondiale, inizialmente faceva l’autista e trasportava carni da uno Stato all’altro, rubacchiando qua e là per fare un po’ di soldi extra. Conosce quasi per caso Russell Bufalino, un importante esponente di Cosa Nostra a Filadelfia, che lo prende sotto la sua protezione, cui seguirà l’escalation nel mondo del crimine. Pertanto Frank inizierà a fare l’imbianchino, che nel gergo mafioso significa colui che imbratta di sangue le pareti dove uccide le sue vittime. Si troverà, inoltre, a gestire anche una doppia famiglia, con tre figlie femmine avute dal primo matrimonio.
Incontra poi a Detroit il sindacalista fondatore dell’International Brotherhood of Teamsters, Jimmy Hoffa, di cui diventa il braccio destro, costituendo così la cerniera tra Cosa Nostra e mondo del sindacato, alternando una carriera pubblica a quella privata di malavitoso. Jimmy Hoffa è un abile oratore, un uomo passionale che ama le sfide: da un lato si mette contro i Kennedy – che lo accusano di essere colluso con la mafia -, e solo più tardi contro Cosa Nostra. Dopo esser stato condannato per frode, Hoffa esce di prigione intenzionato a riprendersi il ”suo” sindacato a tutti i costi. Russ Bufalino, attraverso Frank, lo avverte che deve ritirarsi: «that’s what it is» ripeterà inutilmente Sheeran a Jimmy Hoffa. Il sindacalista, pertanto, sparirà in modo misterioso.
Il regista in questo film narra un periodo che va dagli anni quaranta fino agli inizi del 2000 con Frank Sheeran ormai ottantenne e malato che vive in una residenza sanitaria assistenziale. Scorsese riprende il passaggio del tempo con una visione intima e densa di melanconia. In mondo analogo, ma meno romantico di come descritto da Sergio Leone in “C’era una volta in America” – dove fedeltà e tradimento hanno un ruolo primario – di cui sposa l’atmosfera di deprimente solitudine. «Non ti rendi conto di quanto scorre veloce il tempo, finché non ci arrivi» dice Frank Sheeran alla sua infermeria, una delle poche persone con cui parlerà in vecchiaia.
Il montaggio, così come aveva fatto magistralmente John Huston in “L’Onore dei Prizzi” nel 1985, alterna momenti clou delle “esecuzioni” mafiose a scene di matrimoni o meglio di battesimi, laddove i padrini hanno un ruolo e un significato importante.
Gli attori sono di eccezionale bravura – pari solo a quella dei veri “tre tenori” – : uno sempre eccessivo (Al Pacino), un altro pacato e mediatore (Joe Pesci), e il terzo di poche parole e tutto sguardo (Robert De Niro).
L’inizio del sodalizio artistico tra Martin Scorsese con Joe Pesci e Robert De Niro è datato 1980, dove i due attori recitavano i fratelli in “Toro scatenato”, ed è continuato negli anni grazie a film di successo come, “Quei bravi ragazzi” del 1990 e “Casinò” del 1995. In quegli stessi anni, nella popolare trasmissione televisiva della NBC Saturday Night Live, nasce un famoso sketch chiamato The Joe Pesci Show, basato proprio sull’imitazione dell’attore e del suo amico De Niro.
Invece Al Pacino e Robert De Niro avevano lavorato negli stessi film in “Il Padrino – Parte II” di Francis Ford Coppola del 1975, in “Heat – La sfida” di Michael Mann nel 1995, e in “Sfida senza regole” di Jon Avnet del 2008, ma mai con Martin Scorsese.
Il film “Irishman” è prodotto da Netflix ed è costato moltissimo (attorno ai 150 milioni di dollari). Ha un linguaggio essenziale ed è violento quanto basta, senza troppi compiacimenti nella descrizione dei mafiosi italiani e dei crimini commessi. L’ausilio della computer graphics permette agli attori di recitare, ringiovaniti, se stessi nelle varie stagioni della propria vita, rappresentati con uno stile visivo, a mio avviso, iperrealista. Gli elementi essenziali di questo linguaggio figurativo, sia in pittura sia in cinematografia, sono infatti un’osservazione fotografica dell’oggetto, uno stile freddo e il più possibile “oggettivo”, una grande attenzione ai dettagli, un assoluto distacco psicologico dall’oggetto con la conseguente eliminazione delle scelte personali e soggettive, un’impressione complessiva di una specie di presenza dell’assenza. Poiché il giornalismo e la pubblicità hanno creato un’immagine a sé stante, l’iperrealismo tenta di sottolineare la profonda contraddizione del mezzo fotografico che “non mostra”, di un obiettivo che è cieco alla visione della realtà.
Per chiudere una piccola notazione: nella scena di un’assemblea sindacale Martin Scorsese riprende il manifesto Freedom of speech del 1943 del famoso illustratore statunitense Normal Rockwell.

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