Il nuovo partito di Renzi – ed è già significativo (performativo?) che lo si chiami istintivamente così – si è presentato in varie sedi come una forza politica “femminista”, e ciò sarebbe garantito dal fatto che alle donne viene dato più spazio – come testimoniano i ruoli delle ministre Bellanova e Bonetti, o di Maria Elena Boschi, oggi capogruppo di “Italia Viva” (il nuovo partito di Renzi) alla Camera. Uno spazio di norma paritario, fino a prevedere per le responsabilità di direzione sempre delle “diarchie”, cioè incarichi condivisi da un uomo e una donna.
Di “diarchie” si parla fin da remote antichità, ma si trattava sempre di un potere spartito tra maschi, con alterne fortune sul mantenimento di un equilibrio che spesso diventava molto difficile. Anche la compresenza di un uomo e una donna al vertice di una organizzazione politica non è però una novità assoluta, è stata adottata dai Verdi in Europa, e per brevi momenti anche dai Verdi in Italia, e in qualche movimento della società civile.
Credo non vada sottovalutato che un soggetto politico che si pretende nuovo e diverso dagli altri, e naturalmente “vivo”, senta il bisogno di rivolgersi con una pronunciata attenzione all’opinione e all’elettorato femminile, evocando il “femminismo” e promettendo la divisione a metà del potere.
Come minimo è il sintomo di una qualche consapevolezza del fatto che il mutamento delle relazioni tra i sessi e l’emergere di una nuova soggettività delle donne è una delle grandi trasformazioni del nostro tempo – la più grande? – : una evidenza che la politica maschile a volte cita retoricamente, ma che finora incontra ostinate resistenze a essere davvero riconosciuta, elaborata, tradotta in idee e comportamenti coerenti.
Dubito, sinceramente, che gli annunci di Renzi e di chi l’ha seguito rappresentino una vera svolta. Questa per me dovrebbe essere rappresentata dalla qualità realmente diversa delle relazioni tra le persone impegnate in un progetto politico, cosa che c’entra poco o nulla con l’aspetto quantitativo del 50 per cento. La “diarchia” alluderebbe appunto a un diverso rapporto tra uomo e donna sul terreno molto arduo del potere e dell’autorità. Ma di questo nessuno parla.
Soprattutto non ne parlano i maschi che fanno politica. Credo anzi che un uomo, per dire qualcosa di sensato sul “femminismo” di un partito, dovrebbe parlare in prima battuta di come intende e come vive in quel partito le sue relazioni con gli altri uomini. Il femminismo ha messo sotto scacco il potere patriarcale, che regnava nella famiglia ma informava di sé ogni forma di potere istituzionale, culturale, religioso ecc. Era e resta basato su relazioni strette di solidarietà e complicità (e naturalmente di conflitti, persino mortali) tra maschi. Oggi si vede chiaramente la reazione violenta, nel linguaggio e non solo nel linguaggio, da parte degli uomini che non accettano questa messa in discussione. Chi invece riconosce le ragioni della rivoluzione femminile raramente riesce a spiegare quali cambiamenti questo produce nella sua vita, nelle sue idee, nelle sue azioni.
L’uomo che ha usato la parola “rottamazione” per combattere coloro che, venuti prima di lui, considerava i nemici da distruggere come ferraglia obsoleta, e che ancora oggi evoca il ritorno degli stessi fantasmi (i peraltro tuttora viventi Bersani e D’Alema) per motivare la sua scissione – che naturalmente non sarebbe una “scissione” – che cosa avrebbe davvero imparato da ciò che chiama femminismo?
E che cosa ne pensano tutti i politici che il femminismo nemmeno lo citano?