Pubblicato sul manifesto il 4 giugno 2019 –
Credo che ciò che non funziona nel modo di essere della sinistra – dalla più “alternativa” alla peggio “moderata” – sia qualcosa di molto più profondo di quanto non si ritenga, anche da parte di chi ci riflette criticamente.
Da ragazzo, insofferente di ciò che si definiva “economicismo”, mi consolavo con quella tarda lettera di Engels che correggeva un po’ il meccanico dipendere della “sovrastruttura” dalla “struttura” economica. Questa, se non ricordo male, sarebbe determinante solo “in ultima istanza”. O con quell’altra affermazione del giovane Marx, secondo cui una “critica radicale” va appunto alla “radice”, che per l’uomo “è l’uomo stesso”.
Ma l’”economicismo”, estremista o moderato, resiste tuttora.
Certo il “penultimo” che vive in periferia, o anche il “piccolo borghese” che da oltre un decennio vedono peggiorare reddito e prospettive, per sé e per i figli, si arrabbiano e covano rancore per motivi squisitamente materiali.
Ma se reagiscono odiando l’immigrato o picchiando la moglie (se non peggio), e votandosi all’ “uomo del destino” di turno, ciò ha a che fare con strutture psicologiche, culturali e simboliche solo marginalmente determinate – credo – dal “modo di produzione”.
Ci pensavo partecipando a un confronto a Parma, al termine di un corso di formazione sul tema della violenza maschile contro le donne, un fenomeno di cui ora si parla spesso, ma che è molto difficile da vedere realmente, da interpretare e da affrontare con qualche efficacia (il titolo era infatti: “In-visibile, in-dicibile, in-affrontabile: la violenza sulle donne in una società plurale”). Mi ha colpito il clima di scambio e di apertura tra persone e soggetti molto diversi, donne e uomini (non i soliti pochi maschi spaesati in occasioni come questa), giovani e meno giovani, docenti, amministratrici, esponenti di un ricco associazionismo, stranieri rifugiati provenienti da paesi e culture diverse.
Discutendo con Lea Melandri, Lella Palladino (DIRE), Marco Deriu (di maschile plurale, sociologo e animatore dell’incontro con l’Università di Parma), Fabrizia Dalcò (storica e impegnata nei servizi del Comune), Veronica Valenti (giurista e docente), una cosa mi è sembrata condivisa. Alla radice della violenza resta il permanere – tanto più aggressivo quanto più precario – di un “ordine” maschile nel quale è stretto l’intreccio tra un certo modo di vivere l’amore e i sentimenti e la gestione di un potere scisso, gli uomini nel lavoro, l’economia, la scena politica, le donne – nonostante tanti mutamenti aperti dalla loro rivoluzione – ancora legate alla sfera della riproduzione e della cura.
Cambio di scena, un giorno dopo: invitato con Letizia Paolozzi a discutere del nostro vecchio libro “La paura degli uomini” (2009) in una sala di Albano (dalla associazione “Baruffe” di Paola e Peppe) si discute di temi per certi versi simili. Una signora a un certo punto dice: certo le donne hanno cambiato molto la società e la vita, ma resta il capitalismo che ci impone competizione e sfruttamento, e “se ne frega di uomini e donne”.
E se invece il punto debole del mostro capitalistico fosse proprio la sua matrice sessuata? Visti i pessimi risultati raggiunti vagheggiando la “proprietà sociale dei mezzi di produzione”, perché non immaginare un’altra via: la “socializzazione” tra uomini e donne dei mezzi di ri-produzione e di cura, delle persone e del mondo.
Noi maschi non partoriamo i nostri simili (vorremmo poterlo fare, in eccessi di prometeismo invidioso), ma un altro sguardo sulla vita e i legami che la sostengono potremmo impararlo.
Forse vivremmo meglio, e anche il Capitale dovrebbe arrendersi?