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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

“L’è bravo, anche se negher”

9 Gennaio 2019
di Letizia Paolozzi

C’era una volta il titolare di un bar che decise di chiudere il bagno selezionando a chi dare la chiave a seconda del colore della pelle e dei vestiti che portava. Ogni tanto penso che tutto sia cominciato con lui.
Ma tutto cosa?
Bé, la ricerca di un colpevole perché “ero stufo marcio di trovare la tazza del cesso intasata”. La solitudine, l’ansia, il ruolo sociale frantumato, la mancanza di lavoro e, di conseguenza, il “cammina e crepa” del film “In guerra” (di Stéphane Brizé).
Per via della contrazione del reddito, la vita quotidiana si logora. Il welfare si assottiglia; i primi a soffrirne sono i più deboli. Vedi il tentativo del Comune di Lodi di escludere dalla mensa scolastica i bambini stranieri.
La solidarietà tramonta anche linguisticamente. Così il vocabolario novecentesco viene sostituito dall’annuncio che “La pacchia è finita” per richiedenti asilo, barboni, senza tetto (nonché sindaci restii al Decreto sulla sicurezza).
Convinto dall’annuncio, il vicesindaco leghista di Trieste ha buttato “con soddisfazione” abiti e coperte di un “barbone attivo” in un cassonetto; intanto il primo cittadino Pd di Portici manda gli auguri dal bordo di una piscina ai Caraibi perché anche un sindaco deve “vivere in normale”.
Domina lo scollamento dal reale. Prendi l’E-Commerce: ci compri l’oggetto del desiderio ma non stringi nulla: effetto-caciocavallo. Benedetto Croce per spiegare alla cuoca le idee platoniche e lo scarto tra queste e la realtà, le paragonava a un “caciocavallo appeso”.
Il web ti garantisce un bagno quotidiano nelle emozioni forti.
Siamo in un territorio, quello del populismo, nel quale la linea di demarcazione è molto netta tra sopra e sotto, tra amici di qua e nemici di la. La tv? Guardiamola tra affini (“prima gli italiani”). Anzi, meglio chiudersi dentro e sprangare la porta dal momento che fuori preme l’invasore. Dite che si tratta di una percezione, che la realtà dimostra il contrario? Non vi credo.
C’è un piccolo libro che prova a scomporre gli esiti della crisi per trovare delle vie d’uscita attraverso due saggi scritti dal sociologo Aldo Bonomi e dall’assessore Pierfrancesco Majorino (Nel labirinto delle paure. Politica, precarietà e immigrazione” Bollati Boringhieri 2018 euro 15,00).
Il primo, in un linguaggio immaginifico, racconta l’Italia rancorosa, rabbiosa, “cattiva” (definizione del cinquantaduesimo rapporto Censis), percorsa da egoismo, diffidenza, odio. Un’Italia che non è diventata tale per il colpo di bacchetta del governo giallo-verde. Piuttosto questo governo ha dato parole a ciò che covava sotto la cenere. E’ partita la caccia al capro espiatorio e i social compensano la miseria delle relazioni, la rarefazione della responsabilità verso gli altri.
Chi sono gli altri oggi? Bé, il “terziario povero” delle città: le figure parafulmine degli immigrati. Dagli ultimi ai penultimi, incontri gli “uberizzati”, con il corpo messo al lavoro nelle professioni di scarso salario e nessuna soddisfazione. Un popolo di “smanettoni”, riders, quando va bene affittuari di case-vacanze.
Abbandonata la bussola della classe operaia che suona ormai come un indottrinamento caduto in disuso a fronte dello scenario odierno dei gilets jaunes, dal labirinto puoi uscire creando “i presupposti per nuove relazioni sociali”, con la condivisione.
Anche Majorino, assessore alle Politiche sociali di Milano, pensa a ricostruire i rapporti umani nella città. In che modo? Con una politica che si occupi dell’ inquietudine delle persone, che strappi dalle mani degli “imprenditori della paura” le persone spaventate.
Tra il 2012 e il 2013 “le strutture comunali avevano registrato un aumento del 300% delle domande ricevute dai cittadini in difficoltà”.
Oggi sono cinque milioni e 58mila (non solo italiani di nascita ma anche stranieri residenti) i poveri che il ministro degli Interni vuole “sfamare prima” dei 49 immigrati a bordo di Sea Watch e Sea Eye. Voi capite che mettere a confronto questi numeri ha qualcosa di spudorato.
E però, nello scollamento dal reale pare che funzioni.
Don Colmegna, per anni alla guida della Caritas ambrosiana, ora alla Casa della Carità, è convinto che alla paura ci si può opporre. Per farlo bisogna “stare nel mezzo”. Ascoltando l’osservazione riferita a un educatore senegalese della Casa della Carità da una donna anziana: “L’è bravo anche se negher” e quella della signora Angelina che per andare a trovare l’amica sale i gradini di una scala buia – ascensore fermo – e suona “il campanellino”. Ma l’amica non risponde. Intanto si apre una porta di fianco. Eccolo, Mohammed, Maometto, con la faccia un po’ dentro e un po’ fuori, che la guarda. “Ecco io ho paura. Vorrei chiedergli: “Che cazzo mi guardi”? In quello spazio buio, con il cuore che ti batte e l’odore di couscous, aglio, fritto, che ti entra nelle narici, cresce l’insicurezza, lo spavento per l’uomo nero.
In questa, una delle tante periferie con “gli omicidi, la droga, la “mala”, la sicurezza, le occupazioni abusive” dove abita la signora Angelina, la paura la sconfiggi se ti ricordi che “la casa è comune”. Se provi a ricucire (il cardinale Gualtiero Bassetti), a rammendare (Renzo Piano) un tessuto slabbrato.
Qualcosa di simile alla pratica del prendersi cura agita dalle donne. Peccato che i due autori di un testo così coraggioso nell’opporsi allo sfacelo che ci circonda e sollecito verso la convivenza, non abbiano curiosità di attingere a quella politica.

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