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Il corpo che non tace delle operaie di Melfi

17 Gennaio 2019
di Gemma Pacella

«Esiste un genere di controcritica che cerca di ampliare l’opera d’arte, creando legami, spalancandone i significati, aprendo alle possibilità. Una bella critica può liberare un’opera d’arte che così potrà essere vista nella sua interezza, restare viva, intrattenere un dialogo senza fine che continui a nutrire l’immaginazione. […] questo è un genere di critica che tenta […di…] viaggiare insieme all’opera e alle sue idee, stimolarla a sbocciare, e invitare gli altri a una conversazione che forse sembrava inaccessibile, far nascere relazioni di cui probabilmente non ci si era accorti e aprire porte che magari erano chiuse a chiave. […] la grande critica apre uno scambio che non ha più fine».

Rebecca Solnit, Gli uomini mi spiegano le cose, Milano, 2014, p. 99.

Esiste, dunque, un genere di critica d’arte che si nutre dell’opera stessa, in essa si specchia e ne trae la forza interpretativa, mischiandola alla propria.
Esiste, anche, un genere di opera d’arte che si nutre della realtà, delle spinte sociali e delle riflessioni di donne e uomini di questo mondo e ne rappresenta le energie.
Ieri il circolo culturale di Foggia, La Merlettaia, ha conosciuto entrambe le espressioni di critica e di performance artistica, ospitando la mostra “Il mistero negato del corpo che non tace”, di Clelia Mori.
L’artista ha rappresentato le tute bianco-grigie indossate dalle operaie dello stabilimento FCA di Melfi, per imposizione dell’azienda stessa: una scelta di marketing, voluta già nel 2011 dall’a.d. dell’azienda Sergio Marchionne per conferire un’immagine curata e pulita ai e alle dipendenti di Melfi. Pare che il rimando al “candore” della divisa volesse essere simbolo di una impresa trasparente, in particolare, nel rapporto con i lavoratori e le lavoratrici.
All’adozione del dress code ha fatto, però, seguito la protesta di circa 400 lavoratrici che hanno contestato la scelta del colore bianco della tuta da lavoro data la facilità con cui può macchiarsi del sangue mestruale delle operaie che la indossano. La contestazione è fondata su alcuni elementi fattuali che la rendono diversa da altri contesti di lavoro in cui, pure, la divisa imposta alle dipendenti è del medesimo colore: intanto le operaie dello stabilimento Melfi osservano delle pause di dieci minuti, un tempo evidentemente irrisorio per consentire alle stesse non solo di godere di una effettiva pausa dal lavoro, ma di recarsi nei (affollati) bagni del luogo di lavoro e provvedere alle esigenze; peraltro, le mansioni a cui sono tenute la maggior parte delle dipendenti dello stabilimento FCA implicano movimenti e posizioni corporee che ben facilitano la perdita di macchie mestruali sul pantalone dal colore candido.
Quando Clelia Mori, dunque, ha notizia della protesta in atto a Melfi, prende contatto con una delle operaie ivi impiegate e ha l’idea di realizzare una performance artistica che riveli il simbolico della contestazione delle lavoratrici.
Due anni di paziente e, al tempo stesso, frenetica attesa e Clelia riceve le prime tute bianco-grigie originali delle operaie di Melfi e ci dipinge e ci ricama sopra, rappresentando e rendendo visibile ciò che l’azienda ha tentato di rendere invisibile: il corpo fecondo delle donne che nel sangue, di vita, mestruale trova una delle sue più inequivocabili e chiare rappresentazioni di diversità dal corpo degli uomini.
Ed ecco perché Clelia per una parte ha dipinto cerchi rossi e macchie rosse sulle tute delle operaie e per un’altra parte ha ricamato cerchi dorati a cui rimandano le stelle, metonimia di relazioni che le donne hanno dentro di loro (penso fra tutte, alla genealogia della madre) e all’esterno di loro (riuscendo ad intessere rapporti con l’altra e con l’altro da sé). La mostra si completa delle tele che ritraggono i giorni del ciclo mestruale delle donne e di un grande arazzo che, fra tutti, per grandezza attira lo sguardo degli spettatori e delle spettatrici verso una chiara visione: una goccia di sangue, una macchia di sangue rosso vivo, appunto, simbolo di energia, fatto di fili che si intersecano e intrecciano come relazioni umane, accesso, ma al tempo stesso, non aspro, non forte, non violento.
Osservare queste opere e ascoltare il commento di Katia Ricci che ha organizzato e voluto interpretare la mostra, ha stimolato il dibattito che ne è seguito.
Le mie riflessioni si sono sviluppate intorno ad una questione: può la parte datoriale imporre un dress code in azienda o incontra limiti? Il ragionamento si poggia su basi scientifiche che, da molti anni, sono conosciute tra le fila della giurisprudenza e della dottrina lavoristica: oltre che per ragioni legate alla salute, alla sicurezza e, in generale, ad un ambiente di lavoro salubre, l’azienda può imporre una certa foggia di vestiario o una specifica divisa sia per garantire una certa cura dell’aspetto fisico del dipendente, sia per dare alla clientela un segnale di appartenenza, promuovendo l’immagine della società. Ed è, in effetti, quello che è successo presso lo stabilimento di Melfi: una politica di candore, neutralità e trasparenza che passi attraverso i codici estetici e, specie alle volte, simbolici dei e delle dipendenti. Ragioni di marketing, di reputazione aziendale, dunque che, tuttavia, ritengo, possano essere ridimensionate in presenza di particolari condizioni: qualora l’esercizio della prestazione di lavoro, che è il contenuto principale dell’obbligazione del o della dipendente, risulti compromesso da un particolare abbigliamento o simbolo indossato dal personale, allora potrebbe ritenersi ragionevole e legittimo imporre un codice estetico; se la scelta estetica non interseca l’obbligo principale dell’attività di lavoro, l’imposizione di un dress code non è più sorretto da ragionevolezza e, quindi, dovrebbe decadere.
Nel caso delle operaie FCA, l’esercizio delle loro attività, nei rispettivi settori di destinazione, non parrebbero affatto compromessi dalla divisa di un colore piuttosto che di un altro. Ne è un’ulteriore conferma il fatto per cui per anni il colore storico delle divise degli operai e delle operaie FIAT è stato il blu, da cui il nome, carico di valenza simbolica politico-sociale, delle tute blu, con cui vengono ricordati e ricordate ancora oggi.
Al di là del dato interpretativo della questione dei poteri datoriali in tema di abbigliamento sul posto di lavoro, resta, però, un nodo che deve ancora sciogliersi: da dove nasce il bisogno di mettere in parola, attraverso il linguaggio dell’arte, un conflitto che deriva, essenzialmente e quasi banalmente, dalla scelta di un colore?
Lo standard ufficiale estetico imposto dalla azienda, in questo caso, è basato sulla invisibilità del corpo femminile: il codice imposto aveva la pretesa di rendere visibile il lavoro delle operaie, omologandone l’abbigliamento a quello degli operai, quindi, al contrario, neutralizzando, congelando e rendendo invisibile le differenze tra i due non solo sul piano estetico-sessuale, ma anche sul piano delle pratiche, delle esigenze, dell’agire nei luoghi di lavoro.
La beffa della pretesa di dare visibilità al corpo femminile con il linguaggio e dei codici neutrali (dove neutrale vuol dire linguaggio dell’uomo bianco, eterosessuale e cristiano), si ritorce sempre contro: i corpi fecondi delle operaie hanno reso nuovamente visibile la loro differenza sessuale, riportando alla luce ciò che non può mai essere sottaciuto, il corpo che non tace, la sessuazione che vive e che torna a presentarsi in modo conscio ed inconscio.
Molto più, dunque, di una battaglia per un colore, come ha ben messo in evidenza Iolanda, l’operaia che per prima ha dato testimonianza della vicenda, esempio di storia vivente all’interno delle fabbriche e del mondo del lavoro di oggi.
Iolanda ha, peraltro, denunciato che le soluzioni alternative alla tuta bianca non sono compatibili con il desiderio delle operaie di vivere senza disagio il luogo di lavoro: i pannolini proposti dall’azienda da indossare nei periodi di ciclo mestruale, scomodi e imbarazzanti; i jeans che, in alternativa, indossano le lavoratrici, paiono quasi una lettera scarlatta, una dichiarazione pubblica e ufficiale della propria, normale, fecondità.
Nelle parole e nelle riflessioni di Iolanda si legge il senso di una lotta femminile che parte dal desiderio di viversi in comunità, come quella che si crea nell’ambiente di lavoro, con i propri tempi, le proprie esigenze, senza attecchirsi su di un codice estetico e comportamentale omosessuale maschile.
E sono le conclusioni a cui giunge Katia, chiarendo, infatti, che la differenza agisce al di là dell’ideologia, perché c’è; riflette sul fatto che Iolanda, attraverso un’esperienza concreta di cancellazione, ha condotto un discorso che investe tutto il sistema del lavoro per donne e uomini: le pratiche femminili, coinvolgendo l’intero assetto del lavorare (il nesso corpo/parola di cui ha parlato Giordana Masotto nel descrivere la forza delle donne), mostrano che il lavoro può risultare deteriore per tutti, donne e uomini, e che necessita, dunque, di un cambio di civiltà.
Questo report è partito dal senso di un’opera d’arte e dal senso di una critica d’arte per stimolare e dare voce ad un pensiero che, dal particolare, approdi all’universale e così è stato per la mostra di Clelia Mori: un colore, un capo di abbigliamento diventa un percorso soggettivo di libertà nelle relazioni di lavoro, nelle relazioni umane.

Il mistero negato del corpo che non tace

Mostra di Clelia Mori,
a cura di Katia Ricci

Circolo culturale La Merlettaia
Foggia, 9 gennaio 2019

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