Questo testo è pubblicato nel volume a cura di Ilaria Bussoni e Nicolas Martino “È solo l’inizio. Rifiuto, affetti, creatività nel lungo ’68”, Ombre Corte, 2018, pp. 199 € 18,00
Non è la prima volta che si ripensa al ‘68. Al di là del successo che il palcoscenico mediatico decreta agli anniversari, al di là delle celebrazioni, quel lavoro di memoria aiuta a capire come eravamo; quanto siamo cambiati. Il giudizio, con il passare degli anni, si modifica. Interpreta gli avvenimenti in modi più sfumati, meno bellicosi; torniamo sui nostri passi per scoprire – se ce ne fosse bisogno – che le immagini vengono selezionate diversamente. Ma la conoscenza di ciò che ci ha preceduto rappresenta uno dei principali baluardi contro le derive autoritarie.
Non prendiamo però il ripensamento per un’autocritica. O un ravvedimento. Piuttosto, a me sembra che voltarsi indietro rappresenti un’assunzione di responsabilità.
Dopodiché, sarebbe cosa buona e giusta evitare di crogiolarsi nella testimonianza ufficiale, imbastita di retorica, del tipo: noi, bravi ragazzi abbiamo cambiato i costumi; grazie alla minigonna abbiamo dato una scossa al clima ammuffito e siamo montati sul “treno dei desideri che all’incontrario va” (Adriano Celentano cantava Azzurro). Il fatto è che non siamo stati solo questo.
Per via del vizio d’origine di uno stato d’animo quasi palingenetico: astrattezza, annuncio di una nuova e gioiosa virulenza (o violenza giacché tra le due esiste un confine molto sottile) che pure si spiegano con la giovinezza, passione, intransigenza, impazienza, desiderio di rivoluzione.
È pure vero che evocare il ‘68 costringe a mettere a fuoco abbagli, modificazioni, illusioni, realizzazioni: insomma, illumina un pezzo della propria biografia. Ma nella fotografia selezionata c’è molto in ombra. Bisogna completare l’immagine, come negli acrostici della “Settimana enigmistica”. A molti/e il ‘68 è capitato. Non l’abbiamo fatto. Piuttosto, ci ha fatti: con la scoperta della politica. Evidentemente, un’indecifrabile scoperta vista dall’osservatorio dei corifei dell’antipolitica. Eppure, l’apertura di un conflitto con l’autorità, il padrone, il padre-padrone e il prof. fu qualcosa di più “dell’immaginazione al potere”. Portò parole, segni e comportamenti che intendevano rovesciare modelli consolidati. Il giovane e l’anziano vennero ai ferri corti. Benché – e questo è perlomeno curioso – il giovane prendesse a prestito dall’antico teorie piuttosto pittoresche. Narrando di Rosa Maria Bianconeri, abitante nei pressi di Caliceto, insultata da due brutti ceffi che le ripetevano: puttana fallita, Ermanno Cavazzoni le attribuisce la frase: “Voi siete arcaici cioè pieni zeppi di fesserie come un’arca di Noé” 1).
Noi, invece, nell’arca zeppa di marxismo-leninismo, maoismo, trotzkismo, anarchia, terzomondismo, ci stavamo a meraviglia. Insieme agli spettri del ’68 (per parafrasare Derrida), accompagnati da un’attrezzatura antidiluviana: sampietrino (a Roma), pavé (a Parigi), bandiere rosse e nere, barricate. Automobili preferite: Citröen 2CV o 500 Fiat.
Di qui il comportamento radicale, intransigente, totalitario, in una dimensione fortemente ideologica e uno stato d’animo di febbrile eccitazione. Comunque, in Italia il conflitto inizia prima. Nelle forme dure delle lotte di fabbrica. Con la battaglia di piazza Statuto a Torino tra lavoratori e polizia; i pensieri lunghi di “Quaderni rossi” e “Classe operaia”. In mezzo nel ’66, la solidarietà che spinge tanti “angeli del fango” a Firenze, investita dall’alluvione. Secondo me, ci fermiamo sul 1968 – un tempo sospeso o la sospensione del tempo – per comodità di ragionamento. Il decennio successivo lo segnerà l’insubordinazione collettiva.
Tra le figure dell’epoca evocherei: riconquista dello spazio sociale; momentanea abolizione delle frontiere di classe; presa di parola; potere agli studenti; potere agli operai. Occupazioni, manifestazioni, scontri con i fascisti, con la polizia che è, assieme, aggressiva e repressiva. Tra esagerazioni e espiazioni, la realtà si distingue poco. Primi interventi davanti ai cancelli della fabbrica; segue la costruzione di capannelli, il volantinaggio (scarso l’esercizio di attacchinaggio da parte delle ragazze), riunioni su riunioni. Respiriamo l’odore dell’inchiostro del ciclostile. Sono le ingiustizie del mondo ad aver interrotto il percorso “sicuro” degli studenti. La scolarizzazione di massa scuote gli equilibri. Il progresso senza fine non è più all’ordine del giorno. Buttiamo a mare le basi americane e la vecchia cultura, i lacci e i lacciuoli dell’autoritarismo. Basta con il benessere, la merce, il consumo. “Siate realisti, chiedete l’impossibile”.
Il dispositivo che dà la scintilla si chiama Vietnam: bruciano le cartoline precetto per protestare contro la guerra d’invasione dei marines americani. Non ha senso comunque chiudere in un pugno il Giappone degli Zengakuren, Città del Messico, la Polonia, Valle Giulia. Dalle nostre parti, la contestazione tocca l’apice verso la metà dell’anno. E però “presto si moltiplicarono i segnali che il culmine della rivolta era ormai superato. Il 30 maggio il Bundestag emanò con i voti della Grande Coalizione le leggi di emergenza. A giugno De Gaulle tornò al potere. Il maggio parigino stava terminando, e ad agosto l’invasione sovietica liquidò il ‘socialismo dal volto umano’” 2).
Tuttavia il ‘68 non rappresenta solo l’esplodere della rivolta. Bourdieu lo paragona a “un grande scossone dell’ordine simbolico”. Il quale scossone provocò almeno tre vittime. L’università, con il suo progetto neocapitalistico, fondato sulla presunta neutralità della scienza e l’autoritarismo del potere accademico, la proletarizzazione degli studenti, il cambiamento della composizione sociale, la mancata riforma degli insegnamenti.
Seconda vittima, il più grande partito comunista d’Occidente, il Pci. Nonostante il suo segretario, Luigi Longo, a differenza degli Amendola, compia un gesto imprevisto con l’incontro al Gramsci di alcuni studenti del movimento romano e dei protagonisti della rivista “Quindici” che ascoltavano insieme diffidenti e immedesimati nella sacralità del luogo. Scriverà su “Rinascita” il segretario del Pci: “Io non credo che un profondo rivolgimento nelle coscienze e negli orientamenti, soprattutto di larghe masse di giovani, possa avvenire in modo educato e bene ordinato: solo illusi e burocrati possono pensare in questo modo” 3).
Comunque, “i fatti” di Piazza Statuto, le riviste del marxismo critico, sono a tutti gli effetti una “provocazione”. Terza vittima, le gerarchie ecclesiastiche, le istituzioni del cattolicesimo, troppo aggrappate a norme morali e prescrizioni dogmatiche. Aveva dato speranze il Concilio Vaticano II in cui la Chiesa, riformandosi, accettava il “rischio della sua destabilizzazione”. Le speranze retrocedono quando, in piena rivoluzione sessuale, nel ’68, Paolo VI, il 25 giugno, pubblica l’Humanae vitae, enciclica sull’amore, denunciando la contraccezione che tende a separare la sessualità dalla procreazione. La condanna della pillola ha un effetto dirompente.
In America Latina gruppi di sacerdoti pretendono dalla Chiesa maggiore attenzione ai poveri. In Italia la scuola di Barbiana di Don Milani e le comunità di base nelle quali si aprirà un conflitto diverso da quello tra progressismo e conservatorismo cattolico. “Quello che ho vissuto è stato invece lo slancio amoroso di prendere alla lettera il messaggio evangelico che di per sé si pone contro una chiesa solo maschile, gerarchica, dottrinaria e ideologica” racconta Mira Furlani 4): dai primi passi della comunità dell’Isolotto, alle lotte operaie e i contrasti con la Curia fiorentina, fino al processo penale in Tribunale che vide incriminati (e assolti) una decina di imputati per istigazione a delinquere e impedimento di funzione religiosa, in seguito ai fatti che riguardarono direttamente, oltre don Enzo Mazzi, la comunità.
Per tornare alle origini del ‘68, pare sia stata l’occupazione dell’università di Berkley a provocare la scintilla. Altri paesi s’incendieranno mentre in Francia e Italia “la classe operaia deve dirigere tutto”. Gasparazzo forever! Succede poi che, essendo ancora il Pci il partito della classe operaia, un pezzo del movimento sessantottino, rimasto senza comunità, senza assemblee e senza notti bianche fumose, finisca per prendere la tessera. Nel frattempo, i timidi, chi ha sempre taciuto, si mette a parlare. E chi si sentiva annichilito dalla segregazione sociale, chi non ha mai incontrato un operaio (la Fiat, l’Alfa di Arese, la Fatme erano un mondo a parte), di colpo scopre le relazioni.
Le voci ora vogliono rendere materia viva gli avvenimenti, non rappresentarli. Sono i bisogni e le forme di vita che vanno tradotti in un linguaggio nuovo. I muri di Parigi si coprono di manifesti, scritte, testi ripescati dal surrealismo. All’istituto des Beaux-Arts gli studenti occupano la scuola e la battezzano “Atelier populaire des Beaux-Arts”. Da lì, a ritmo infernale, escono giornali murali che annunciano “Continuiamo la lotta”. Abbandonata la litografia, si punta sulle 250 copie all’ora della serigrafia.
Nanni Balestrini prenderà a modello quelle scritte per il Teatro delle mostre: si tratta di venti opere e eventi che si concludevano in un giorno, pensati provocatoriamente contro un sistema pomposo e ridicolmente aulico da poeti visivi, esponenti del Concettuale, scrittori dell’avanguardia italiana, artisti (tra gli altri di Giosetta Fioroni, Enrico Castellani, Cesare Tacchi, Fabio Mauri). Plinio De Martiis squaderna le giornate nella sua galleria La Tartaruga a Piazza del Popolo. Sulla scena non poteva mancare il Maggio francese. D’altronde “il maggio ci riguarda” 5). E infiammava Julian Beck del Living Theatre, estasiato di fronte alla contestazione nell’Odéon occupato di Racine e Moliere: “È lo spettacolo più bello al quale abbiamo assistito”. In contemporanea, scende dalla gare Montparnasse Daniel Cohn Bendit al quale il governo ha vietato inutilmente di rientrare in Francia.
Mettere piede a Parigi dopo lunghissimi viaggi in macchina dall’Italia evidenzia l’impossibilità di spedire una lettera, acquistare un francobollo, prendere un autobus, il metrò, il treno, comprare le sigarette: nove milioni di persone nell’exagone sono scesi in sciopero. A risolvere la crisi del “maggio” ci pensa De Gaulle. A soffocare “la primavera di Praga” si adoperano i carri armati sovietici. Qualche ora prima del loro ingresso nella città “magica”, sotto la statua equestre di San Venceslao si aggirano hippy dai capelli lunghi, barbe, chitarre in spalla. Il 23 agosto, rombo dei cingolati. I capelloni lasciano a terra lo strumento e si arrampicano sui mezzi agitando una bandiera. Consegnano biglietti ai soldati; glieli infilano in tasca: “Non vi vogliamo, andate via”.
Ma noi, turisti rivoluzionari, avevamo in testa Lenin e l’assalto al Palazzo d’Inverno; il comunismo, che libera i lavoratori dalle loro catene; il sacrificio di milioni di russi morti combattendo il nazismo. Impensabile stare dalla parte di chi lanciava il napalm. E le sorti della democrazia, la libertà di parola, la riformabilità del “socialismo reale”, il “socialismo dal volto umano”? Scrive nel suo saggio Anna Bravo che “nei movimenti non ci si appassiona alla Primavera di Praga: troppo riformista… quell’enorme giacimento di sofferenza è il meno sentito dei mali del secolo” 6) .
Vero. Il ‘68 è stato ingiusto. A sua discolpa, pianterà buoni semi. Basta pensare, per l’Italia, alla riforma psichiatrica di Franco Basaglia. Oppure al nuovo Diritto di famiglia, all’evoluzione rapidissima delle mentalità e soprattutto all’esplodere di una nuova soggettività femminile: il “soggetto imprevisto” di Carla Lonzi.
Non che questo soggetto avesse chiaro un piano per interrompere lo squilibrio millenario tra uomini e donne nel momento in cui la storia inaspettatamente cambiava direzione, pochi erano i conflitti con l’altro sesso. Qualche gruppo; il collettivo Il cerchio spezzato di Trento che si accorge del peso di un linguaggio e di un comportamento esclusivamente maschili. Ma la “felicità pubblica”, quella che si condivide con i maschi, è troppo grande per rinunciare ad assaporarla.
La lotta di classe ancora primeggia su quella di sesso. Nonostante ciò che scrive Kate Millet nel manifesto per l’assemblea del primo gruppo di liberazione delle donne della Columbia University di New York: “Quando un gruppo ne domina un altro, il rapporto tra i due è politico. Quando un assetto del genere è mantenuto nel tempo, genera un’ideologia (feudalesimo, razzismo, eccetera). Tutte le civiltà storiche sono patriarcali: la loro ideologia è la supremazia maschile” 7) .
Per separarsi, per decidere di essere infedeli al sesso maschile, per aprire le ostilità sul potere, il sesso femminile dovrà esercitarsi ancora a lungo prima di far saltare l’ordine patriarcale.
Questa è la trasformazione femminile. Non somiglia alla “grande forzatura” 8) della rivoluzione con la sua attesa dell’ora x che ribalterà – dovrebbe – tutto. Nominare esplicitamente l’aggressività maschile sarà una operazione complicata, lenta. Arriverà con la presa di coscienza, l’analisi, il separatismo.
Il documentario di Alessandra Bocchetti Della conoscenza 9) (sulle manifestazioni di Valle Giulia e piazza Cavour) mostra in controluce il fascino dello slogan: “Vietnam vince perché spara”.
E allora, dalle tante facce di quell’anno: spontaneità e organizzazione; partito e controcultura, è possibile trarre qualche spunto? A me pare che il sospetto libertario nei confronti di uno Stato fragile finirà per cedere a un riflesso antiistituzionale, antipolitico. La contestazione somiglia a un’onda che, portandosi dietro molti detriti, colpisce qua e là. Anche ciecamente. S’inceppa l’assetto dei partiti, non solo del Pci, che avevano funzionato fino allora. Vacilla l’idea di una staffetta tra generazioni; la contrapposizione tra vecchi e giovani si allarga. Rimane, nei partiti, un disinteresse per il corpo, la sessualità, i sentimenti dell’individuo in carne e ossa. Questo territorio viene appaltato all’altra metà del cielo mentre la politica sempre meno riesce a raccapezzarsi. Le donne, una volta sottratto ai maschi il sostegno, sembrano le uniche a essere scampate al naufragio generale.
1) Ermanno Cavazzoni, Vite brevi di idioti, Guanda, Parma 2017.
2) Hans Magnus Enzesberger, Tumulto, trad. it. di Daniela Idra, Einaudi, Torino 2016.
3) Citato da Franco Ottaviano, ’68. La rivolta giovane Cronache e documenti, Harpo editore, Roma 2018.
4) Mira Furlani, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, Gabrielli Editori, Cengia (Verona) 2016.
5) Paolo Fabbri, Il ’68 sociale politico culturale, in Nanni Balestrini, Franco Berardi Bifo, Sergio Bianchi (a cura di), Alfabeta materiali 2018: il ’68 sociale politico culturale, DeriveApprodi, Roma 2018.
6) In Guido Crainz, Il sessantotto sequestrato. Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni, con saggi di P. Kolář, W. Goldkorn, N. Janigro, A. Bravo, Donzelli, Roma 2018.
7) “Internazionale extra”, aprile 2018.
8) François Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, trad. it. di E. Magno, Feltrinelli, Milano 2016.
9) Alessandra Bocchetti, Della conoscenza (1968), Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico.