TRE VOLTI – Film di Jafar Panahi. Con Behnaz Jafari, Jafar Panahi, Marziyeh Rezai, Maedeh Erteghaei, Narges Delaram, Iran 2018 –
Il film, che ha ottenuto la Palma d’Oro per la sceneggiatura al Festival di Cannes 2018, è girato quasi in tempo reale e sembrerebbe riportarci indietro di due secoli. Ci mostra una parte meno nota dell’Iran, da cui provengono, peraltro, i genitori del regista, la zona montana rurale e contadina del Nord-Ovest che confina con la Turchia, molto lontana dalla vita caotica della capitale.
Il regista Jafar Panahi e la popolare attrice Behnaz Jafari (interpretati da loro stessi) ricevono un video di una ragazza adolescente che vorrebbe recitare e uscir fuori da una situazione claustrofobica, è disperata perché ha bisogno di aiuto e non è mai riuscita a contattare la famosa attrice, pertanto si suicida mediante impiccagione (vera o presunta?) in una grotta sulle montagne.
Il regista spaventato e l’attrice in preda a sensi di colpa partono immediatamente a bordo di un fuoristrada verso questa piccola località montana per capire cosa sia realmente successo. Il viaggio e la ricerca della ragazza sembrano diventare pretesti per incontrare una realtà agricola apparentemente ospitale e formalmente gentile, ma terribilmente chiusa e attaccata alle vecchie tradizioni. Una sola strada a un’unica corsia unisce i villaggi a monte e a valle. Essendo piena di tornanti le auto o gli autobus devono suonare per avvertire che stanno passando e, a seconda del numero dei colpi di clackson, comunicano se c’è una particolare urgenza o addirittura emergenza.
E così dopo una notte di viaggio i due raggiungono il paesino dove vive la ragazza fanno la conoscenza di persone, e riscoprono usanze dimenticate. Particolare risalto è dato alla cerimonia del taglio del prepuzio ai maschi, la cui pelle è fonte di antiche credenze: secondo dove verrà sepolta saranno decisi i destini dei giovani. Se nel cortile di una prigione il giovane diventerà un criminale, se nel giardino di un’Università il giovane diventerà o dottore o ingegnere. Nulla per le ragazze. Anzi per la mamma di Marzieyh, il fatto che la figlia sia brava a scuola e voglia studiare è vissuto come una disgrazia.
Così il regista e l’attrice scoprono che il suicidio era solo simulato, che la ragazza è entrata all’Accademia di Teheran e che, oltre a essere mal vista da tutta la comunità, è minacciata fisicamente dal fratello conservatore e un po’ fuori di testa. Possiamo immaginare come possa essere vista nel paese una ragazzina che vuole fare l’attrice. Uno scandalo, una “intrattenitrice”! La ragazza è stata già allontanata dalle altre ragazze, ha solo una cugina con cui stare. Si è rifugiata da una vecchia attrice e danzatrice, che vive isolata e messa al bando dalla comunità per i film che aveva interpretato prima della rivoluzione khomeinista e oggi, considerata matta, passa la maggior parte delle sue giornate a dipingere nei campi.
Non ci sono medici nel villaggio né veterinari. Non c’è campo per i cellulari, l’unico elemento di “progresso” è la TV. “Ci sono più parabole che persone” dice uno degli abitanti al regista. Tre sono i volti delle donne: l’anziana madre conservatrice, l’attrice adulta e affermata, la giovane ribelle ma determinata.
Lo stile di Panahi è asciutto e rigoroso – in linea con un certo cinema iraniano il cui capostipite è Abbas Kiarostami (“Il sapore delle ciliegie” del 1997) – dall’andamento simile a quello di una dolente ballata, una processione che si svolge in una terra priva di libertà. Qualcuno ricorderà che, Jafar Panahi – Pardo d’oro a Locarno per “Lo specchio” nel 1997, Leone d’oro a Venezia per “Il cerchio” nel 2000, Orso d’oro a Berlino per “Taxi Teheran” nel 2015 – era stato condannato nel dicembre 2010 a sei anni di prigione e all’interdizione ventennale dalla professione per aver appoggiato pubblicamente la protesta della cosiddetta “rivoluzione verde”. Aveva ricevuto solidarietà internazionale da molti intellettuali e registi tra cui Steven Spielberg, Martin7Scorsese e Francis Ford Coppola, pertanto il governo iraniano, per favorire i rapporti con gli USA di Obama, aveva permesso a Panahi di scontare la condanna agli arresti domiciliari e di girare solo film a bassissimo budget con una piccola telecamera digitale. Quindi con tenacia e caparbietà il regista è riuscito, come per “Taxi Teheran” del 2015, a riprendere scene di vita iraniana quasi interamente a bordo di un’auto con la telecamera nascosta, e con la presenza di attori che recitano se stessi, a metà tra finzione e realtà.
Così scrive Erfan Rashid in “Focus”: «Che cosa rimane a un regista quando un decreto governativo lo priva del suo diritto di fare film per vent’anni e lo costringe a rimanere a casa confiscandogli il passaporto? La prima risposta che viene in mente: “Niente! non gli rimane niente! E ciò potrebbe essere l’inizio della fine per quel regista!”. Tuttavia, qualcosa gli rimane: la determinazione e la testardaggine di trasformare quella restrizione di libertà e l’emarginazione, in una resistenza per la libertà continuando a realizzare film. E non importa se quel film verrà visto da altri o no, rimane comunque un film».