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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Il senso di responsabilità (femminile) viaggia in Circumvesuviana

21 Novembre 2018
di Letizia Paolozzi

La manifestazione a Torino Sì TAV

Mettiamo in fila episodi diversi di questi giorni: l’iniziativa di sei “cattive ragazze” in piazza del Campidoglio a Roma, quella di sette signore in piazza castello a Torino. Pezzi di società civile, di “ceto medio riflessivo” (avrebbe battezzato quella piazza lo storico Paul Ginsborg) che, grazie a una “scossa civica”, a “una protesta gentile”, chiedono di riparare le buche, curare il verde, raccogliere l’immondizia oppure vogliono far ripartire la città piemontese attraverso l’innovazione, la piccola impresa, la cultura e i diritti. Non si fanno ingabbiare nel Si Tav/No Tav di chi promette il cambiamento senza occuparsi minimamente della sua qualità. Schieramenti? No grazie.
Assicurano le organizzatrici delle due manifestazioni di non avere partiti alle spalle: Non siamo né di destra né di sinistra. Forse non è così vero. Qualche politico magari c’è ma deve accodarsi; simbolicamente, sono le donne a tenere la testa del corteo.
Le signore comunque vengono immediatamente sommerse da una valanga di stereotipi: se non prendono ordini espressamente dai maschi, si tratta comunque di parioline con barboncino da pedigree al guinzaglio e borsa firmata da mille euro; niente altro che “madamine” salottiere.
Tuttavia, sulla scena sociale non si muovono solo loro, le organizzatrici, che per chi le attacca rappresentano una specie di casta in conflitto con le due prime cittadine anticasta.
C’è un caleidoscopio di figure femminili diverse nei linguaggi, negli interessi, nei bisogni ma sotto la luce dei riflettori. Chi scende in campo per difendere i valori della sinistra (manifestazione romana contro il razzismo e il decreto Salvini); chi disegna una costellazione di famiglie in contrasto con la controriforma Pillon. E chi vuole cambiare quel che resta dei partiti, chi scardinare il “presidente dei ricchi”.
Non da oggi le donne prendono la parola. Solo che oggi (a determinate condizioni e latitudini, naturalmente) vengono ascoltate. Perlomeno, notate.
All’assemblea romana del Pd risuona la voce della consigliera regionale Pd di Piacenza Katia Tarasconi che preme sul gruppo dirigente: “Ritiratevi tutti. Liberate il Pd”. Tuttavia, ha ragione Alberto Leiss (sul “manifesto”) a nutrire dei dubbi: l’invocazione a “fare squadra” di Tarasconi non basta. Anzi, non basta più: sa di comizio. E’ la politica nelle sue pratiche e contenuti che va cambiata.
Frans Timmermans, candidato Pse alla presidenza della Commissione europea, vedendo che i principali sfidanti al congresso Pd sono di sesso maschile, ha ammonito: “Se non siamo femministi, non siamo di sinistra”. Però non ha lasciato il segno giacché una era la domanda febbrile: che significato ha l’assenza di Renzi da questa assemblea?
Intanto, le Towanda Dem (associazione femminile nata per cambiare il Pd) si danno appuntamento per il primo dicembre: “Tutte in piedi! Per la libertà, uguaglianza, democrazia”. Basta con la politica dei piccoli passi per battere le diseguaglianze tra uomini e donne. Serve una “vera e propria spallata”. Ciò nondimeno, la traduzione concreta della spallata ha un segno minimalista.
Sempre il primo dicembre, un pezzo di femminismo (della differenza), dato che “la civiltà è nelle mani delle donne”, le invita a “farsi avanti”. Eppure, la richiesta di schieramento contro l’utero in affitto, contro la prostituzione, contro e ancora contro, finisce per scoraggiare – temo – quante hanno voglia di discutere. Difetta la disposizione a mettere in discussione i propri convincimenti. Giornata densa, comunque, quel primo dicembre, visto che anche la Cgil, insieme a molto mondo associativo ( tra cui la Casa Internazionale delle donne) invita a manifestare per solidarietà, giustizia sociale e diritti con lo slogan “Roma non sta a guadare”…
Meno ortodosso, il Fronte delle filosofe esige un “impegno civile” con l’obiettivo di risvegliare le forze di opposizione che sembrano “disperse e disorientate”. Ricordatevi che sono le donne “la molla del cambiamento”.
Uscendo dai confini italiani, la lotta dei “gilet gialli”: pezzi di una classe medio-bassa che vive nella Francia profonda e con millecinquecento euro al mese deve mangiare, sopravvivere, ricorrere all’automobile per ogni spostamento; ma anche esemplari di quei ceti medi che si sentono minacciati nello status e sentono minacciato dall’aumento del costo della benzina il loro Suv. Una lotta guidata da Jacqueline (o Jacline come si fa chiamare) Mourad, bretone, 51 anni. Denunciano la riduzione del potere d’acquisto: collera di fronte ai ricchi sempre più ricchi e ai poveri che restano tali. Nel movimento entrano giovani, vecchi, casalinghe, agricoltori, artigiani, disoccupati con aggiunta di una roba simile ai “forconi”.
Intanto, in Usa, l’onda rosa è arrivata su Washington con le elezioni di metà mandato. Esordienti al Congresso molte giovani, Lgbt, asiatiche, native, musulmane, nere. Certo, la presidenza di Donald Trump, le sue minacce alla salute, all’ambiente, il disprezzo che nutre per il sesso femminile hanno suscitato un sentimento di urgenza: dobbiamo scendere in campo. Ecco le marce del gennaio 2017, il terremoto del #MeToo che ha scosso Hollywood.
Ma cosa condividono queste figure femminili? Che siano nate donne non è sufficiente. Loro lo sanno ma adesso lo sanno anche gli altri, quelli e quelle che le osservano. Si sta interrompendo il racconto opprimente della saga eterosessuale dove tutto si misurava in rapporti di forza, giochi di potere e primazia maschile.
E’ nata una opinione pubblica che attribuisce alle donne la virtù sociale della responsabilità. Quella che ha spinto una donna, sia essa pariolina, madamina, militante, capopopolo, nel nostro caso una sarta in viaggio sulla Circumvesuviana, a sbilanciarsi esponendosi quando, al ragazzo che lanciava insulti razzisti nei confronti di un pakistano, ha detto: “Tu non sei razzista, tu si nu strunz”.

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