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Microcritiche / Un giovane Holden in Anatolia

18 Ottobre 2018
di Ghisi Grütter

L’ALBERO DEI FRUTTI SELVATICI
Regia di Nuri Bilge Ceylan. Con Dogu Demirkol, Murat Cemcir, Bennu Yildirimlar, Hazar Ergüçlü, Serkan Keskin, Tamer Levent, Akin Aksu, Ahmet Rifat Sungar, Ercüment Balakoglu, Öner Erkan, Kubilay Tunçer, Kadir Çermik, Özay Fecht, Sencar Sagdic, Reyhan Asena Keskinci, Turchia Francia 2018. Fotografia di Gökhan Tiryaki. Sceneggiatura di Ceylan, Akin Aksu ed Ebru Ceylan-

Il regista Nuri Bilge Ceylan è considerato uno dei più raffinati e sensibili tra quelli europei. I suoi film sono stati sempre segnalati a Cannes – premiato “Usak” nel 2003 – e anche quest’ultimo intitolato “Ahlat Agaci” in originale, cioè pero selvatico, ha riscosso ottime critiche e anche successo di pubblico, nonostante le tre ore di durata.
Sinan (Dogu Demirkol) è un giovane neo-laureato che ritorna a casa dopo gli studi svolti presso l’Università di Çanakkale, sulle rive dell’Egeo. Il padre Idris (Murat Cemcir) insegna nella scuola del villaggio, è alla soglia della pensione ed è stato uno stimato maestro elementare. Purtroppo il vizio del gioco dei cavalli lo ha fatto indebitare un po’ con tutti gli abitanti del paese. Çan, una cittadina di montagna di 30.000 abitanti nella Regione della Marmara in Anatolia occidentale, è la vera protagonista centrale del film: il dramma familiare e quello esistenziale, si intrecciano con il rapporto con la natura – sia città o sia territorio – cui l’uomo è chiamato a obbedire e dipendere. Qui convivono mentalità rurali e mentalità progressiste e le immagini della cittadina riportano sia le betoniere e le fabbriche, sia i poderi semiaridi dove vivono ancora i nonni di Sinan, dediti più alla pastorizia che alla coltivazione per la carenza di acqua. Ma il sogno di Idris è di trasformare la terra riportando il verde, pertanto passa i week-end a scavare un pozzo infinito, senza successo.
Asuman (Bennu Yildirimlar), la madre di Sinan, e Yasemin (Reyhan Asena Keskinci), la sorella, sono disperate per la situazione dei debiti accumulati da Idris e glielo rinfacciano ogni secondo. Lei a quarant’anni è andata a fare da baby-sitter per poter racimolare qualche soldo e gestiste lo stipendio del padre. Idris a causa della dipendenza dal gioco ha perso la sua dignità, raggranella soldi qua e là e finirà per rubarli di nascosto perfino al figlio.
Il film narra un anno di vita in questa zona, vista attraverso gli occhi del giovane, una sorta di versione turca de “Il giovane Holden”, che vorrebbe scappare da lì perché non può accettare una vita ”normale”, ma non riesce a decidere il suo futuro. Fare l’insegnante e andare in un paesino dell’est della Turchia, dove c’è pericolo di continue sommosse – così considerate dai protagonisti – data la situazione curda? Oppure accettare un qualsiasi lavoro e restare a Çan? Come mi faceva notare la mia compagna di cinema, si riscontra un’ambivalenza evocata, anche se non esplicitata nel film, tra la consapevolezza del proprio vivere che i vari personaggi esprimono e una sorda e non detta inquietudine verso un nemico che crea disordine. Tale inquietudine diventa esplicita solo nelle parole al telefono del poliziotto, ex compagno di Sinan, che riconosce di agire in modo violento probabilmente per sfogare le proprie insoddisfazioni, e però lo fa massacrando un socialista. Questa contraddizione di sottofondo è interessante e, in qualche modo, è uno degli elementi della critica che il regista porta avanti, in modo estremamente sobrio, sulla situazione politico-religiosa in Turchia .
L’unico vero desiderio di Sinan è la scrittura e cerca con tutti i mezzi di far pubblicare il suo primo libro – “Ahlat Agaci” per l’appunto – che è una raccolta di racconti intimisti. A questo scopo incontra il Sindaco – molto bello il dialogo – che lo manda dall’imprenditore illuminato, apparentemente finanziatore e mecenate. Ma i suoi scritti, nonostante ottengano i complimenti, non sono un genere che possa interessare particolarmente né tantomeno attrarre investimenti. Dovrà arrangiarsi da solo se vuole pubblicarlo.
Sinan non si trova a suo agio con gli altri giovani, non capisce le donne – “ora piangono ora ridono…” – e si difende evitando di affezionarsi. Molto ben desacritto è l’incontro con una vecchia amica il cui padre ha deciso di farla maritare a un ricco gioielliere.
La bellezza del film, a parte i panorami affascinanti ma anche estremamente inquietanti, è basato sui vari incontri di Sinan con i relativi dialoghi. Polemico e provocatorio incontra in una libreria di Çanakkale, un famoso scrittore di cui ha ascoltato una conferenza su la letteratura “rurale”, e lo subissa di domande imbarazzanti. Lì va a rifugiarsi nel Cavallo di Troia, rimasto come statua urbana, elaborato per il film “Troy” di Wofgang Peterson del 2004, con Brad Pitt nella parte di Achille.
A Çan, invece Sinan si cimenta in discussioni filosofiche e religiose con due Imam criticando, e non tanto velatamente, il loro rapporto con i beni materiali e mettendo in risalto delle incongruenze nel loro comportamento. Pensando di avere un compito moralizzatore, vorrebbe forse cambiare il mondo, come ogni giovane idealista, ma così riesce solo a diventare antipatico.
Nel film c’è una sorta di doppio finale interpretabili entrambi come una proiezione mentale di Sinan che, da un lato si riscontra simile al padre – l’unico peraltro che avrà letto il suo libro – dall’altra invece, con la sua indecisione sul proprio futuro, si rende conto di non avere scampo.
Il cinema di Nuri Bilge Ceylan è fatto di campi medi e primi lunghi con camera ferma, molti silenzi e pochi piani-sequenza. Il linguaggio sempre molto curato ricorda, e talvolta si rifà in modo esplicito, i testi classici russi con parole sobrie, anche quando il concetto è difficile. Gli oggetti rappresentati nei suoi film hanno il ruolo di mettere in evidenza il tempo che passa, la precarietà e l’assenza di prospettive. Gli interni delle case sono teatro dei conflitti e la sicurezza familiare viene, pertanto, demistificata.
Su ilfatto quotidiano.it Marcello Barison aveva già rilevato tempo fa un’affinità con la regia dell’ungherese Bèla Tarr che gira sempre con lunghi piani sequenza ma in bianco e nero. I film di Tarr, inoltre, trattano temi che indagano gli esseri umani principalmente nelle loro forme più degradate e incivili e raccontano dell’impotenza dell’uomo davanti alla morte. Ma in Ceylan c’è anche tanto cinema di Bergman, per il lavoro accurato che non salva nessuno, che mostra le incongruenze morali e le rivela lentamente in un crescendo cui sembrerebbe mancare la catastrofe finale. Lo spettatore vive i film di Ceylan attendendo un evento, invece le insofferenze e i risentimenti sono l’inevitabile palude in cui ristagna la loro vita rispetto alla quale nessuna fuga è praticabile.

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