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Arte è politica: una mostra sulle tute delle operaie di Melfi

20 Marzo 2018
di Alessandra De Perini

Non è la prima volta che Le Vicine di casa, associazione di donne che opera a Mestre dai primi anni Novanta, realizzano una mostra artistica (1). Di più: da alcuni anni una di loro, Daniela Bettella, acquerellista, calligrafa, attenta alle forme dell’arte femminile contemporanea, sperimentatrice di diverse tecniche creative, ha dato vita ad un “Laboratorio artistico” che si riunisce ogni martedì in un’aula del patronato di Carpenedo. Da lì, inizia una ricerca appassionata e condivisa, tesa all’ideazione e realizzazione di “oggetti simbolici” che rappresentano percorsi soggettivi di libertà. Nel laboratorio si cerca di tenere insieme pittura e scrittura, desiderio di stare in relazione e pratiche artistiche, invenzione di forme e capacità di assemblare tra loro materiali diversi: un turbinio di colori, stoffe, acqua, pennelli, matite colorate, inchiostro di china, penne e pennini, ago e filo, forbici, carta e cartoncini, colla, sabbia. Mentre alcune dipingono, altre copiano in bella scrittura su piccoli o grandi fogli parole sentite preziose come l’oro, altre ancora leggono brevi testi che ispirano l’immaginazione. Così viene tenuto vivo il desiderio che la vita splenda ogni giorno, illuminata da prospettive impreviste, un bene raro da non sprecare.
In questo contesto vivo di relazioni tra donne che, nel corso degli anni, si sono scelte e condividono un impegno non solo artistico, ma anche politico e di ricerca (2), si è imbattuta, non per caso, l’artista Clelia Mori (3) che tra queste donne ha trovato ascolto, sostegno e la concreta possibilità di esporre la sua ultima opera. Dallo scambio tra lei e me (4) sul rapporto tra arte e politica, sullo “statuto dell’arte” e la libertà dell’artista di interpretare o modificare quello statuto, sull’invisibilità/visibilità del corpo femminile nella storia ufficiale dell’arte e il gesto artistico-politico che restituisce realtà a quel corpo, liberandolo dallo sguardo maschile, nasce l’idea di realizzare, con un finanziamento del Comune di Venezia, una mostra-installazione intitolata “Il mistero negato del corpo che non tace”.
La mostra si inserisce all’interno delle iniziative e manifestazioni del “Marzo Donna 2018” e viene allestita nel cuore della città di Mestre, in un luogo molto antico e prestigioso, trasformato in spazio espositivo: la Torre Civica, di origine medioevale, unica rimasta delle undici che circondavano la città. Il tempo non è favorevole. Nei primi giorni di marzo, infatti, fa molto freddo e nevica fitto. Clelia però non è preoccupata: quello che conta per lei è innanzitutto la realizzazione di un momento pubblico dove l’opera possa vivere di vita propria, oltre la dimensione soggettiva da cui proviene e acquistare un respiro più ampio, mettendosi in relazione con il mondo. Nonostante il freddo e la neve, vengono a vedere l’installazione diverse donne, giovani coppie, piccole famiglie, persone anziane con il carrello della spesa, uomini curiosi e interessati a capire. La più piccola visitatrice è una bimba in carrozzina e il più anziano un uomo di 92 anni. Alcune e alcuni si fermano a parlare, chiedono spiegazioni, lasciano sul quaderno posto su un tavolino in entrata la propria firma e a volte scrivono brevi frasi di commento. Per tre giorni è un via vai di gente, mentre il cielo carico di nuvole, nella notte tra il 2 e il 3 marzo, nasconde la luna piena.
Durante l’inaugurazione Clelia Mori racconta com’è nata l’opera e per tre giorni non si stanca di rispondere a domande e critiche, di spiegare, descrivere, mettere in luce i particolari, i segni e i simboli presenti nella sua installazione, costituita da quattro semplici tute di tela bianca, indossate realmente da operaie della Fiat di Melfi. Le tute sono appese su attaccapanni di legno e disposte lungo un filo che scorre da una parete all’altra della torre. Di fronte, viene posta, quasi a voler benedire le operaie che hanno le hanno indossate, lasciandovi l’impronta del proprio corpo, una tela ad olio (60X80) che l’artista ha intitolato “Salvator mundi” e che riprende “L’Annunziata” di Antonello da Messina, ma trasforma la mano di Maria che ferma l’Arcangelo Gabriele per chiedergli come farà a mettere al mondo il figlio di Dio, se non conosce uomo, in una mano benedicente con le stimmate: è lei, secondo Clelia Mori, con il suo “sì” a salvare il mondo. Chi entra si trova così tra due modi completamente diversi di intendere l’arte che l’artista tiene insieme: il dipinto, dove spicca luminoso il volto della Madonna, circondato dallo splendido velo azzurro, e le quattro tute bianche, illuminate da due fari posti a destra e a sinistra che, nella parte dei calzoni, mostrano due cerchi concentrici ricamati con filo rosso, sotto due dei quali una macchia rosso acrilico rappresenta il sangue mestruale, segno irriducibile della differenza (5); nella parte alta della camicia, invece, quasi invisibili, ricamati con filo bianco, tre cerchi concentrici e con prezioso filo d’oro, dentro e intorno ai cerchi, innumerevoli puntini e linee rette o curve che rappresentano le stelle e le reti di relazione che le donne tessono con il mondo. Sul taschino della camicia, sono inseriti degli specchietti, non immediatamente visibili, così chi si avvicina per guardare s’imbatte sulla propria immagine.
A questo punto, è necessario raccontare la storia delle tute, oggetti di “scarto” che l’arte, in virtù del suo statuto, ha restituito a nuova vita. Era il 9 ottobre 2015, quando Clelia Mori legge su Repubblica la notizia, poi ripresa da altri giornali, della contestazione delle operaie Fiat di Melfi nei confronti delle tute bianche da lavoro adottate dall’azienda. In pochi giorni 400 delle 600 operaie che lavorano alla carrozzeria hanno firmato una petizione: quelle tute bianche, uguali per uomini e donne, che alludono alla pulizia e all’efficienza dell’industria moderna, alla parità tra i sessi, non sono per niente pratiche, si macchiano facilmente di sangue mestruale e costituiscono per le operaie motivo di disagio e umiliazione. In risposta alla protesta, la Fiat dà in dotazione alle operaie, insieme alla tuta, delle culotte da indossare sotto i calzoni nei giorni del ciclo. Queste però sono scomodissime, soprattutto d’estate, perché impediscono alla pelle di respirare e sono percepite dalle operaie come un’imposizione umiliante perche l’azienda considera le mestruazioni una malattia.
Colpita da quella notizia e letteralmente infuriata per la violenza che i corpi delle donne, non solo a Melfi ma in ogni parte del mondo, sono costretti a subire, decide di intervenire. Così si mette in contatto con alcune operaie, spiega loro il suo progetto artistico e queste, prendendola sul serio, le promettono che le faranno avere alcune vecchie tute, quando la Fiat darà loro quelle nuove. Tra Clelia e le operaie, una in particolare, s’instaura una relazione (6). Finalmente, nell’estate del 2017, dopo due anni di attesa, un corriere consegna un pacco all’interno del quale, lavate e ben piegate, ci sono quattro tute. La protesta delle operaie si traduce così, attraverso il lavoro artistico di Clelia Mori, in un’opera che all’inizio s’intitola “Ritratto di operaie” e in seguito “Il mistero negato del corpo che non tace”. Le tute, su cui l’artista ricama segni che rappresentano il visibile e l’invisibile del corpo femminile fecondo, si collocano ben oltre il linguaggio rivendicativo sindacale: indicano il piano simbolico, dove è custodito il “mistero” di un corpo che, anche se sottoposto al duro e faticoso lavoro della fabbrica, alla disciplina dell’organizzazione industriale, anche se messo al servizio di logiche produttive estranee alle ragioni della vita, è irriducibilmente libero e, nonostante l’omologazione e la riduzione al maschile, di fatto, non tace, anzi parla (7). Attraverso le macchie del sangue mestruale, infatti, quel corpo dice la differenza. Al di sopra del tempo meccanico della produzione capitalistica, il corpo di tutte le donne, in ogni parte del mondo, segue un altro tempo, altri ritmi, è in relazione con il ciclo della luna e con l’intero cielo stellato.

Note
1) Le Vicine di casa partecipano da diversi anni a eventi, come l’annuale “Festa della riconoscenza” di Chioggia, o convegni e iniziative pubbliche con le proprie “opere” (al convegno “La città che vorrei” del 6 giugno 2015, Daniela Bettella illustra il libro d’artista “Mappe di città” e fa collocare, a mo’ di tende, lungo le grandi vetrate del lato interno della sala, otto grandi reti bianche, intrecciate di nastri di carta colorata, tenuti insieme da grossi bottoni che simbolizzano i punti dove si incrociano, annodandosi, gli innumerevoli fili di relazione e i legami tra donne di cui è intessuta la città; recentemente, in occasione dell’incontro pubblico con Marina Terragni e di quello con Stefania Tarantino, è stata esposta l’opera collettiva “Il manto della dea”). Due finora le Mostre: “Post Scriptum”, mostra di libri d’artista, Torre civica di Mestre 6,7,8 marzo 2015; “Le valigette delle Vicine di casa. Mappe, simboli e segni di un percorso di libertà femminile”, Centro-Donna 18 ottobre 2017;
2) Ogni mese da quasi trent’anni, in uno spazio pubblico aperto anche ad altre e altri, Le Vicine di casa continuano a darsi appuntamento, fedeli a un percorso di presa di coscienza, per ragionare insieme su ciò che sta capitando nel mondo e nelle vite di ognuna, alla luce della rivoluzione femminista ancora in corso;
3) Donna di fiume, figlia di Nella Cugini, Clelia Mori nasce a Boretto (R.E.) in riva Po, nel 1950. Giovanissima, scopre la passione per il segno, il colore e l’immagine e ottiene dai genitori il permesso di frequentare a Parma l’Istituto d’Arte. Dopo il diploma, comincia a esporre, ma soprattutto continua a disegnare e dipingere. Per diversi anni insegna, poi lascia l’insegnamento, mette al mondo un figlio e lavora come bibliotecaria e operatrice culturale a Poviglio, il paese, dove oggi vive e ha il suo studio, con il cavalletto tra la cucina e il vecchio tavolo da pranzo così, quando lavora, può seguire contemporaneamente le pentole al fuoco. Al bisogno, quando dipinge grandi tele a olio o acrilico, usa come piano d’appoggio anche il pavimento o il portico e le pareti interne o esterne della casa in cui abita. Ha esposto in diverse collettive e personali. Ha parlato del suo lavoro di artista, del suo passaggio dal formale all’informale e viceversa, secondo le diverse esigenze espressive, nella Rassegna “Non a voce sola” (Porto Sant’Elpidio 26.9.2013) e, invitata dall’artista bolognese Donatella Franchi, al Master Universitario in Consulenza filosofica di Trasformazione (2014-2015) all’Università di Verona.
4) Faccio parte dell’associazione Le Vicine di casa e dal 2016 di Preziose, associazione nazionale nata nel 2016 allo scopo di riflettere sull’autorità femminile al governo e sostenere politicamente il progetto ideato da Annarosa Buttarelli, autrice di Sovrane (Il Saggiatore 2013 e riedizione 2017), di una “Scuola di alta formazione per donne di governo” che attualmente si articola, a livello territoriale, nelle “Accademie della maestria femminile”;
5) Elise Thiébaut, Questo è il mio sangue, Einaudi 2018; “Il sangue delle donne. Tracce di rosso sul panno bianco”, mostra di 58 artiste italiane e internazionali, a cura di Manuela De Leonardis, Palazzo Fibbioni, L’Aquila, marzo 2018;
6) La sera prima della mostra, Clelia Mori riceve dalla giovane operaia con cui è rimasta in contatto una lettera che è letta durante la presentazione. Dopo aver raccontato sinteticamente come è avvenuta l’industrializzazione in Lucania “con tanto di ingaggio, busta paga, contributi, diritti, ma con il triste rovescio della medaglia: inceneritore, gabbie salariali, turnazioni in doppia battuta per uomini e donne, accettazione di alcune “condizioni”, anche da parte dello Stato, affinché Fiat non andasse ad aprire in Portogallo”, la giovane operaia scrive:“La tuta é diventata quasi bianca perché l’operaio, almeno all’apparenza, non deve dare l’idea della persona che si reca “a faticare”, a sporcarsi, a stancarsi, ad alienarsi al ritmo incessante e ripetitivo della catena di montaggio che non può fermarsi mai e in nessun caso. La verità é invece che noi facciamo un lavoro duro, forse uno dei più duri, e dovremo lavorare fino a 69 anni considerata l’età media dei lavoratori di Melfi e la legge Fornero. Intanto ci ritroviamo a vestire di un grigio chiarissimo, quasi bianco ma, a differenza di molte altre categorie di lavoratori che vestono di bianco, a Melfi non é possibile lasciare la catena per recarsi in bagno, a meno che non si venga sostituiti, per bontà, dal “team leader”. I bagni sono pochi e le pause durano solo 10 minuti, oltretutto implicano il blocco collettivo di tutto il montaggio per cui è facile che dopo aver impiegato quasi 3 minuti per recarmi (io personalmente) in bagno non possa espletare le mie necessità se dovessi trovarli occupati e tardare per aspettare il mio turno potrebbe comportare una sanzione disciplinare per “abbandono di postazione”. Ad oggi le tute sono ancora bianche, abbiamo subito un ridimensionamento al ribasso dei diritti, i turni non sono più gli stessi, da tre anni lavoriamo anche le notti di sabato e domenica e la domenica pomeriggio una volta al mese per poi avere il riposo infrasettimanale. L’azienda ha facoltà di non retribuire i primi 3 giorni di malattia se l’assenteismo dovesse superare un certa percentuale (non verificabile se non da alcuni sindacati), anche i premi di produzione si basano sullo stesso principio, abbiamo un nuovo contratto, il CCSL (Contratto Specifico) che regolamenta solo gli operai Fiat, fatto proprio su misura, da quando essa é uscita da Confindustria e dal Contratto Nazionale. Abbiamo tanto da riconquistare!.”;
7) Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1978

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