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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

Codici culturali e violenza sulle donne

11 Dicembre 2016
di Bianca Pomeranzi

 

Pubblicato nell’inserto del Manifesto “il corpo del delitto”, 26 novembre 2016 

A chi, come me, è capitato di organizzare la prima manifestazione notturna contro la violenza sulle donne del 27 Novembre del 1976, di cui ricorre un importante anniversario, i quarant’anni trascorsi domandano una riflessione profonda. Non solo perché dopo quella manifestazione partì in Italia la raccolta delle firme per l’allora controversa legge di iniziativa popolare, che si concretizzò solo venti anni dopo, ma anche e soprattutto perché proprio in quegli anni la lotta delle femministe su questo tema iniziò a espandersi a livello globale.

Una lotta così tenace e duratura da sconfiggere anche la ferrea burocrazia dell’ONU fino al punto da arrivare a inserire l’eliminazione della violenza sulle donne come uno degli obiettivi principali dell’Agenda per la sostenibilità a cui tutti i paesi si sono impegnati di contribuire entro il 2030.

Detta così, sembrerebbe una marcia trionfale. Invece, è solo una parte della narrazione, quella istituzionale, che certo conta molto, ma non è sufficiente a assicurare il risultato più importante, cioè di porre fine a ogni “violenza diretta contro una donna perché è una donna”. Così, infatti, la definiva nel 1992 la specifica Raccomandazione Generale della “Convenzione contro le discriminazioni sulle donne”, la CEDAW, che fornì la base per la Dichiarazione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 1993, molto più precisa nell’indicare con l’espressione “violenza contro le donne” ogni “atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

La formulazione “Violenza di genere contro le donne”, oggi preferita è frutto, dunque, di una forte evoluzione sia all’interno del sistema dei diritti umani che all’interno del diritto penale e civile dei singoli paesi. Indubbiamente le convenzioni Regionali di Belem do Parà per l’America Latina, di Maputo per l’Africa e di Istanbul per l’Europa costituiscono altrettanti passi avanti nel delineare gli obblighi dello Stato nella prevenzione, nella protezione e nella punizione della violenza e nel riconoscere le ragioni culturali e sociali che ne sono all’origine, soprattutto nella violenza domestica.

Tuttavia, e proprio su questo ritengo che sia doveroso riflettere dopo quasi mezzo secolo di impegno e di pratiche, l’epoca in cui ci troviamo a vivere moltiplica le situazioni di violenza maschile contro le donne, all’interno dell’occidente impoverito, nel modo disumano in cui migranti e profughe sono trattate, fino al terrorismo estremista che ne fa un simbolo di potenza.

Per ritrovare l’efficacia politica necessaria al cambiamento radicale che noi tutte vogliamo, occorre, cercare di capire se e quali sono le connessioni profonde tra quello che accade nella nostra società e la controffensiva in atto a livello globale.

L’apparato giuridico e normativo che negli anni è maturato sia in termini di soft law, ovvero di diritti umani, che in termini di leggi statuali, è certamente un dato positivo, ma non è sufficiente. Così come non sono sufficienti il sostegno e gli aiuti a quei gruppi di donne che si ribellano, ormai ovunque nel mondo, agli atti di violenza e che in moltissimi casi compiono una funzione sussidiaria all’inefficacia dello stato nella prevenzione e nella protezione.

Da esperta del Comitato CEDAW ho vissuto con angoscia l’impotenza per le vicende delle ragazze di Chibok, catturate da Boko Haram e di fronte alle violenze e agli assassini sulle e delle donne Yazide perpetrate dal sedicente Stato Islamico. Un’angoscia resa duplice dal fatto che era ben presente il rischio di trasformare lo sdegno in una ragione aggiuntiva per quel presunto “scontro di civiltà” di cui l’Occidente si serve per elevare muri contro le persone e costruire autostrade all’espansione neoliberista delle multinazionali.

Trovare il modo di svelare il filo che unisce quegli episodi eclatanti, che in realtà sono solo la punta di iceberg di quanto accade in ogni teatro di guerra, all’inarrestabile frequenza con cui la cronaca ci riporta i femminicidi italiani, sembra quasi impossibile.

Eppure è una sfida che le femministe devono assumersi per realizzare quel passaggio di civiltà capace di andare alla radice del meccanismo di dominazione sui corpi delle donne che rimane iscritto nei codici culturali di tutto il mondo.

Occorre notare che sia la CEDAW, sia la Convenzione di Istanbul, tanto per citare due degli strumenti più noti in tema di contrasto alla violenza, sembrano tenere conto di questa esigenza, ma nella pratica tendono a focalizzarsi sulle fattispecie di reato e sui sistemi di punizione. C’è invece minore attenzione e, spesso, capacità o possibilità, di mettere al centro delle analisi dei singoli paesi l’attuazione delle misure politiche che sarebbero necessarie per incidere sulla cultura patriarcale che costituisce il tessuto connettivo da cui si origina il dominio sui nostri corpi.

Questa parte è, e rimane per ora, affidata alle pratiche femministe, alla capacità e alla possibilità di mantenere aperto il conflitto con la cultura dominante e con i codici culturali che inchiodano al linguaggio della vittimizzazione e marginalizzano le femministe nello spazio pubblico.

Certo nell’epoca confusa che stiamo vivendo, anche le pratiche sono sottoposte ad una frammentazione che non consente più il netto taglio epistemologico che il nostro femminismo ci aveva assicurato negli anni settanta, per il solo fatto di esserci e di prendere parola. E’ più difficile costruire un campo comune tra tante diversità, tra tante possibili alleanze. Eppure sono ancora convinta che sia questo lo strumento migliore per combattere la violenza simbolica e quella quotidiana e reale che ci inchioda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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