Pubblicato sul manifesto il 22 novembre 2016 –
Certi volenterosi filosofi nostrani avevano appena riempito le cronache culturali con lo slogan “ben tornata realtà”, in polemica con tutte le teorie basate sul l’idea che le opinioni contano più dei fatti, ma ecco che l’Oxford Dictionary dichiara “parola dell’anno 2016” il termine post truth, vale a dire post verità. Il termine – appreso da un articolo di Gianni Riotta sulla Stampa di giovedì scorso – sembra destinato a un repentino successo, rimbalzando mediaticamente nelle narrazioni quotidiane.
La post verità – cioè una sorta di verità posticcia, basata più su una “dimensione emotiva spiazzante e ondivaga” ( definizione di Aldo Bonomi ) che su una razionale percezione della realtà – sarebbe il dato prevalente del “clima” in cui viviamo, se non addirittura il segno di un’epoca. Un momento della storia in cui – per esempio – è difficilmente calcolabile il danno prodotto dalle pure falsità che circolano in rete. Sempre Riotta ha scritto che l’inventore di facebook Zuckemberg si difende da simili accuse sostenendo che il 99 per cento di ciò che leggiamo sui social è vero, e solo l’1 per cento è falso. Ma un po’ come avviene nella uguale proporzione resa famosa da Occupy Wall Street, quell’1 per cento da solo – e ammesso che lo stesso Zuckemberg non dica bugie – è più potente del molto più numeroso resto. Come dicevano gli intellettuali nel Medioevo “ex falso sequitur quodlibet”: il falso dell’uno per cento è in grado di corrompere ogni cosa e rendere non credibile il 99 per cento di verità garantita.
Che la teoria della post verità dominante venga collegata alla vittoria di Donald Trump però mi insospettisce non poco. Ci vedo una comoda scappatoia per il progressista preso in contropiede: certo che può vincere uno come lui in un mondo di fandonie capaci di ottundere l’immaginario delle masse! Una specie di scappatoia relativamente consolatoria, che distoglie dal guardare con attenzione a che cosa non ha funzionato nel campo di chi ha perso negli Usa, e che anche qui da noi non se la passa troppo bene.
Ci sono opinioni sui cosiddetti fatti che possono risultare più interessanti. Una l’ho trovata proprio su facebook, grazie a una “condivisione” di Ida Dominijanni, argomentata da un professore americano, Mark Lilla, sul New York Times. (The End of Identity Liberalism). Ad aver fallito sarebbe una cultura liberal troppo concentrata sul tema delle identità differenti, per lo più individuate come minoranze a cui si devono riconoscere diritti: dalle donne ( errore macroscopico, tra l’altro, considerare la metà del genere umano una minoranza) ai neri, latini, glbt, ecc. Questa specie di ossessione, con tutte le sue forti ragioni, ha finito per alienarsi lo stato d’animo – e non solo tra i bianchi della middle class impoverita – di molti e molte che non vogliono identificarsi in una minoranza. Che ambiscono a una idea di sè come parte di qualcosa di più grande di un singolo individuo, e di una più o meno piccola comunità. E qui ha pescato il discorso di Trump, insieme allo scontento per una condizione materiale peggiorata nonostante i relativi successi di Obama contro la crisi.
Emerge una pre verità – se così posso dire – che non può essere rimossa da qualunque intenzione e pratica politica: se è indispensabile partire dal sè personale, singolare, individuale, e dalla sua libertà, l’agire politico assume pienamente senso quando ognuno di noi entra in relazione con qualcosa di universale. È sulla natura e qualità di questo universale che non abbiamo le idee chiare…