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Microcritiche / Giustizia per la figlia uccisa

17 Giugno 2016
di Ghisi Grütter

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IN NOME DI MIA FIGLIA – Film di Vincent Garenq. Con Daniel Auteil, Sebastian Koch, Marie-Josée Croze, Christelle Cornil, Lila-Rose Gilberti –

Con “In nome di mia figlia” il regista Vincent Garenq è al suo quarto lungometraggio. Dopo aver girato “Presume Coupable” del 2011 su uno degli accusati dell’affaire d’Outreau (un caso penale di abuso sui minori) ed essersi occupato in ’”Enquête” del 2015 dei paradisi fiscali, in questo film tratta un caso di cronaca giudiziaria francese, una storia veramente terribile.
Vedendo il film sembra di ritrovare tutti i problemi di ottusità burocratica, di ipocrisia nazionale e istituzionale che troviamo oggi in vari casi di cronaca e di morti “sospette”, sembra anche di riscontare la dedizione alla ricerca della verità dei parenti come, ad esempio, i genitori Paola e Claudio in quello recente di Giulio Regeni, o la sorella Ilaria nel caso di Stefano Cucchi del 2009.
Si soffre per tutto il film assieme a uno straordinario Daniel Auteil che interpreta Monsieur André Bamberski, contabile in una ditta a Toulouse, di origini polacche trasferitosi in Francia durante la seconda guerra mondiale, la cui figlia Kalinka di quattordici anni muore in circostanze misteriose. Bamberski dedicherà tutta la sua vita a cercare giustizia, a far riaprire il caso, ad andare e venire varie volte in cerca di ulteriori prove a Lindau sul lago di Costanza – il lago sul fiume Reno detto Bodensee al confine tra Svizzera, Germania e Austria – dove vive l’ex moglie con il sospetto dott. Dieter Krombach (Sebastian Koch, il bellone di “Le vite degli altri”) e dove è stata uccisa la figlia.
Man mano che sembra si arrivi a un punto fermo nell’iter della giustizia, avviene qualcosa di negativo, un intoppo, un disguido, che rigetta Bamberski nello sconforto, ma lui non si arrende mai e intraprende sempre nuove battaglie con perseveranza e ostinazione. Diventerà un esperto giurista a forza di studiare la legislazione francese ed europea. In tal modo però trascurerà la sua giovane e affettuosa compagna e perfino il lavoro, per dedicare tutti i suoi sforzi alla giustizia per la morte della figlia, e forse un po’ anche alla vendetta dell’adulterio della moglie con il perverso medico tedesco.
Attraverso peripezie che non voglio qui raccontare, André Bamberski riuscirà dopo trent’anni a ottenere finalmente giustizia ma a caro prezzo: la sua stessa vita gli è passata accanto.
Il film si regge prevalentemente sulla bravura di Daniel Auteil, ma si apprezza anche il lavoro di Vincent Garenq per la corretta ricostruzione dei fatti senza lasciarsi sedurre da fantasiose interpretazioni psicologiche dei vari protagonisti. Così afferma lo stesso regista in un’intervista su “Terza Pagina”: «L’estetica del film contribuisce molto a dare un’impressione di rigore. Colori, luci, scenografie e movimenti della macchina da presa: tutti elementi che partecipano a una volontà comune di sobrietà. Cerco di mettere il realismo della storia e dei personaggi davanti a tutto, di far dimenticare che ci troviamo al cinema. La sobrietà è dunque essenziale. Per quanto concerne i colori del film, non c’è stato mai, o quasi mai, un trattamento particolare. C’è giusto il contrasto della luce del Marocco, molto solare, e quella molto grigia della Germania».

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