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Microcritiche / Giorni belli (ma un po’ noiosi)

27 Giugno 2016
di Ghisi Grütter

imgres-2I MIEI GIORNI PIU’ BELLI – Film di Arnaud Desplechin. Con Quentin Dolmaire, Mathieu Almaric, Lou Roy-Lecollinet, Eve Doé-Bruce, Françoise Lebrun –

“I miei giorni più belli” è un film adatto agli spettatori nostalgici di François Truffaut che si fanno affascinare dai “romanzi intimi” e dai problemi degli amori adolescenziali di una piccola città della provincia francese. Le vicende sentimentali sono presentate in flash back – il titolo originale è “Trois Souvenirs de ma Jeunesse” – e narrate dalla voce fuori campo del protagonista (non faceva così anche Truffaut?). Paul Dédalus (da giovane Quentin Dolmaire) da bambino ribelle, svogliato e ingestibile diventerà da adulto un affermato antropologo richiesto pure al Ministero degli Affari Esteri per le sue competenze. Arnaud Deplechin nella sua regia segue il modello del regista della nouvelle-vague nel proseguire la storia del protagonista dei suoi film precedenti interpretato da Mathieu Almaric, così come l’Antoin Duanel truffautiano era stato sempre interpretato da Jean Pierre Leaud.
Le storie adolescenziali di amori vissuti si svolgono alla fine degli anni ’80 – negli anni della caduta del muro di Berlino – a Rubaix, una cittadina di circa 90.000 abitanti situata al confine con il Belgio a 200 km a nord di Parigi.
Paul da giovane va a studiare all’Università di Parigi ma s’innamora di Esther (Lou Roy-Lecollinet), la ragazza sedicenne un po’ affetta da bovarismo, la più desiderata della comitiva, con la quale può incontrarsi solo nei week-end quando torna a casa, e avrà con lei un rapporto intenso di sette anni, prevalentemente epistolare (ancora Truffaut).
Le storie narrate nel film fanno riferimento a generi diversi, quello breve sull’infanzia – con la follia e suicidio della madre – trova le sue matrici in Rossellini, Buñuel e ancora Truffaut, mentre il viaggio in Russia nel genere dello spionaggio; il ricordo decisamente più lungo è proprio quello del genere sentimentale in cui vengono mostrati, oltre all’amore, i desideri, le paure, i tradimenti e il carteggio quotidiano dei due ragazzi. Chiude il film con i protagonisti adulti: l’epilogo è sostanzialmente un monologo del furibondo Paul che, al rientro dal Tagikistan e in un prolungamento del disagio adolescenziale, rivolge all’amico che l’aveva tradito molti anni prima proprio con la sua adorata Esther.
Quello che secondo me il regista non è riuscito a riprendere da Truffaut è la sua ironia, l’affettuosa goffaggine dei suoi personaggi che suscitano empatia nello spettatore; qui il fondo resta drammatico così come, ad esempio, è denunciato dal rapporto con la professoressa di antropologia Béhanzin (Eve Doé-Bruce) che colma il vuoto lasciato dall’assenza materna.
Il film – proiettato nelle sale in originale con i sottotitoli – è amato molto dai critici probabilmente per i suoi riferimenti e citazioni quale esempio di cinema colto. Sicuramente intenso e ben curato risulta, a mio avviso, piuttosto faticoso nella parte di descrizione degli amori adolescenziali un po’ troppo lunga e lenta, mentre la parte iniziale dell’infanzia fino al viaggio in Russia possedeva un bel ritmo incalzante.

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