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Disavventure del corpo femminile

22 Agosto 2015
di Letizia Paolozzi

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Scontro sull’”ideologia gender” tra il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro e il cantante Elton John. L’autore di “Rocket Man” ha difeso i libri che parlano di matrimoni gay e famiglie Arcobaleno.
Il primo cittadino, invece, li ha banditi dagli scaffali delle scuole per l’infanzia. La famiglia ha da essere “naturale”. Brugnaro è diventato l’eroe del “Foglio”, delle scuole “Gender free”, messe su da parroci militanti e dalle Sentinelle in Piedi.
Generalmente, quei libri, e chi li scrive attraverso parole o disegni, raccontano il cambiamento delle mentalità e degli assetti famigliari. Vogliono combattere le discriminazioni. Obiettivo buono se non fosse che “il gender”, agitato da opposte sponde, finisce per significare tante cose diverse. Da un lato, neutralizza la differenza dei sessi (identificata con l’eterosessualità), il che significa femmina subalterna al maschio e maschio patriarcal-virile, dominatore della femmina. Invece tu, io, noi, dobbiamo poter scegliere – indifferentemente – se essere queer, trans, gay. Dall’altro lato, gli individui nascono maschi oppure femmine. Con i ruoli assegnati. Biologicamente. Lui procaccia il pane; lei fa i bambini. L’omosessualità è uno scherzo di natura, una patologia.
Grande confusione sotto il cielo del “gender”. Ma la situazione è eccellente?
Torniamo al cantante. Dice che Brugnaro vuole “affondare la meravigliosa Venezia” perché non ha capito che quei libri invitano “all’amore e all’inclusione”. Divenuto padre attraverso la pratica dell’utero in affitto, Elton John fa questa affermazione dal suo punto di vista. Un punto di vista che – temo – esclude le donne. A meno che non incarnino la pura funzione riproduttiva.
Ora, la società deve riconoscere il posto occupato dalle coppie dello stesso sesso e definire una legislazione adeguata. Tuttavia, tra modificazioni dei comportamenti di coppia, secolarizzazione, sbandieramento del desiderio, commercio del sé e rincorsa dell’ingegneria genetica, a rimetterci è il corpo femminile. Che viene strappato dal suo statuto simbolico. Giacché gli uomini, per la loro natura, non riescono a fare un bambino, succede che paghino donne più bisognose che generose, per diventare padri. Il corpo femminile, appunto, viene desimbolizzato: identificato con un utero o delle cellule.
Si sostiene che avere un figlio è “un diritto”. Se però questo “diritto” lo si conquista a scapito delle donne, non mi piace. In effetti, nessuno scavalca la complessità del legame tra madre e figlio.
Forse la scommessa di Martina Levato, condannata a quattordici anni per avere, con il suo compagno, sfregiato un ragazzo, anzi, due, con l’acido (intendeva “ripulirsi” dei rapporti precedenti), ruota intorno alla complessità di quel legame. Riparare con il bambino (che le è nato) nella comunità del mediaticamente onnipresente don Mazzi? Riscattarsi e rinascere, grazie a quella nascita? Sulla stampa è divampato un dibattito intriso di compassione, beatificazione del ruolo materno, interpretazioni psicoanalitiche raffazzonate, disinteresse per le vere vittime.
La disfida sul “gender” e la controversia su Martina Levato sembrano vicende distanti, eppure hanno un filo comune: il corpo femminile. Un corpo che l’individualismo dei diritti e i progressi scientifici spingono a chiudere – nuovamente – nell’ordito culturale e simbolico dell’illibertà femminile. Magari per Elton John tutto questo non è un problema. Io mi auguro che lo sia. Per lui e per i miei amici omosessuali.

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