Pubblicato sul manifesto il 3 marzo 2015 –
Un po’ di giorni fa mi sono imbattuto su facebook non nella solita rissa a colpi di insulti tra chi sostiene tesi opposte senza aver alcun interesse a comprendere almeno qualcosa dei pensieri altrui, ma in una semplice definizione tratta da un vocabolario. Si trattava della parola competere: derivando dal latino cum (con, insieme) e petere (andare verso), il significato suggerito era andare insieme, convergere in un medesimo punto. E quindi, verrebbe da pensare, anche collaborare per raggiungere un obiettivo comune.
Un significato dunque completamente opposto a quello più diffuso: la competizione è bensì una gara verso una meta comune, ma sottintende sempre più spesso – soprattutto se parliamo di economia e lavoro – un conflitto per primeggiare, eliminare avversari e concorrenti, non esclusi colpi bassi. E pratiche abbastanza odiose nei confronti di chi deve accertare chi sia davvero il più bravo. Qualcuno che nei luoghi di lavoro ha il potere di valutare i comportamenti e la qualità dei servizi o dei prodotti realizzati. Oppure l’insindacabile appello del mercato (o più minacciosamente, dei mercati, al plurale: un plurale che sembra personalizzare un’entità astratta e moltiplicarne la misteriosa soggettività).
Dunque potrebbe non essere necessario imbracciare contro la parola competizione quello che ci sembra il suo più immediato opposto, cooperazione (si collabora senza mettersi le dita negli occhi per far bene una cosa e ottenere un risultato), ma potrebbe essere ugualmente efficace indurre chi brandisce quel termine come una clava – verso tutti coloro che non vogliono combattere come altrettanti “lupi di Wall Street” – a riflettere un momento sul vero significato della loro bandiera.
Non è un caso che questo modo di adoperare il dizionario sia suggerito da Labodif , un laboratorio inventato da due amiche (Gianna Mazzini e Giovanna Galletti) che è nato applicando alle ricerche e teorie del marketing il valore della differenza dei i sessi (una di quelle evidenze assolute della vita che spesso viene completamente rimossa dalle più raffinate tecniche accademiche).
Ma si tratta di una proposta a quanto pare destinata a continuare. Leggendo più attentamente infatti ho visto che competere è indicato come etimo n. 3. Scoprendo così che esiste anche un etimo n. 1 (la parola felice che deriverebbe dal verbo greco feo, produco, e che quindi ha il significato di fecondo). E un etimo n.2 (la parola economia per la quale ancora una volta ci soccore il greco: nomos e oikos, vale a dire la regola o l’ammnistrazione della casa, di ciò che è domestico. E qui lo stravolgimento del senso originale del termine è ancora più paradossale, giacchè la scienza economica classica non ha mai considerato nemmeno l’esistenza del valore di molto di quanto viene “prodotto” tra le pareti domestiche).
Mi pare che sulla pagina facebook di Labodif si sia arrivati all’ etimo n. 7. Quindi se il gioco vi piace, andate a giocare anche voi.
Il divertimento è interessante anche a proposito del metodo di una buona politica. Una politica per il cambiamento – si dice – deve saper trovare parole nuove (e soprattutto leader nuovi!). Ma ogni vera e profonda trasformazione si compie perché già nel presente, nella realtà che viviamo e che conosciamo – o meglio, crediamo di conoscere – agiscono forze e dinamiche che ne determinano il mutamento. Il problema è saperle riconoscere e nominarle. Scoprire i significati dimenticati o rimossi delle parole può essere un buon esercizio per imparare a farlo?