Si discute intensamente sulla proposta del sindaco Ignazio Marino di un’area protetta e vigilata per chi si prostituisce in strada. La Chiesa protesta. Nel Pd, confronto e scontro tra opinioni divaricate. I media, i social si scatenano. Anche se la proposta in due giorni scompare.
Pia Covre, del Comitato per i diritti delle prostitute, aveva sperato che Roma accendesse ”le luci sui diritti di sperimentazione di uno zoning che sia inclusivo e non un ghetto, che garantisca sicurezza e libertà per chi lavora e per i clienti”.
Ma pur essendoci già su un simile progetto le esperienze di Mestre (qualcuno sostiene che funzioni) e all’estero, di Amburgo, di Amsterdam, dello zoning all’Eur non se ne farà nulla. Il sindaco, per tirarsi su, vara il nuovo logo di Roma: “RoMe&You” raggiungendo l’apice del ridicolo. Intanto chiede di cambiare la legge Merlin.
Il sesso a pagamento, dalle pragmatiche, eventuali e migliorabili soluzioni, precipita nella antica disputa tra abolizionisti o libertari. Ci si dedicano uomini (pochi); donne (molte). Ciò che spiace è che il femminismo (successe già quando la nostra amica Roberta Tatafiore disegnò il suo itinerario politico-linguistico da prostitute a sex worker) si rannicchi all’ombra di un giudizio moralistico. Con qualche eccezione. Cito per tutte Giorgia Serughetti (intervista sul Fatto Quotidiano e, in rassegna, su Zeroviolenza, autrice di “Uomini che pagano le donne”).
Il fatto è che le prese di posizione odierne mettono in scena un’entità mitica: “la” prostituzione. Dove gli uomini che diventano oggetti di piacere per le donne, la pornografia, i ragazzi squillo, le baby squillo, la tratta costituiscono lo scenario per una storia comunque innominabile, quella del sesso a pagamento. E degli infiniti modi in cui, nelle relazioni, si declina la sessualità. Pur mediata dal denaro.
In effetti, ci sono acquirenti che fingono di non conoscere questa mediazione. L’11 febbraio, a Lille, Dominique Strauss-Kahn, accusato di “concorso in sfruttamento aggravato della prostituzione”, difende le sue “parentesi ricreative” come libertinaggio.
Comunque, scompare il fatto che in una relazione sessuale tra un uomo che paga e una donna che si vende (ma i sessi potrebbero moltiplicarsi e invertirsi, cosa che già accade), entra il modo di essere di due sconosciuti con i loro sentimenti, pulsioni, orientamenti sessuali. Determinati da una asimmetria del desiderio e del potere tra maschio e femmina.
Scenario complicato, sul quale, evidentemente, incide il tempo in cui siamo, quello della postmodernità. Nel quale assistiamo alla smaterializzazione del reale. Alla moltiplicazione delle immagini del corpo. Chi se l’aspettava che “il corpo è mio e me lo gestisco io” degli anni Settanta finisse nel bondage? Per non parlare delle ragazzine riprese dalla webcam e del valore di una immagine scambiata per comprarsi la borsa di Fendi. Niente penetrazione; ormai vige il contratto, non il rapporto.
Per questo la prostituzione non ha confini semplici da definire: d’altronde, spostandola dal regno della visibilità a quello dell’invisibilità, non la si sopprime. Semplicemente, la si nega. Eppure raddoppiano le facce dei protagonisti. Anzi, triplicano in un gioco di specchi. C’è la vittima, l’emarginata, la donna da difendere e la cittadina che ha deciso in buona coscienza di vendersi. C’è il cliente che paga e pretende, quello violento, timido, solitario, ordinario, anonimo, melanconico, represso. Poi c’è la presenza del mercato, nei suoi innumerevoli rami e i tentativi legislativi dello Stato che si concludono, quasi sempre, con un aumento delle pene.
In questa discussione infinita, dove aumentano le contraddizioni drammatiche, una cosa si fatica a riconoscere: che nella relazione con il cliente la prostituta riesca a conservare la propria soggettività, come traccia di una sovversione grazie alla quale, forse, non si piega all’ordine strutturale della prostituzione.