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Il divenire donna di Marcel Duchamp (…e il suo rifiuto del lavoro)

21 Ottobre 2014

220px-RroseSelavyPubblichiamo due articoli su Marcel Duchamp apparsi sul sito di Alfabeta2

Metamorfosi di Marcel Duchamp
di Giovanna Zapperi

Pubblichiamo qui un’anticipazione del nuovo libro di Giovanna Zapperi, L’artista è una donna. La modernità di Marcel Duchamp, in libreria nei prossimi giorni per le edizioni ombre corte.

Marcel Duchamp è l’artista che ha espresso nel modo più radicale la crisi attraversata dalla creazione artistica negli anni attorno alla prima guerra mondiale. Nell’abbandonare la pittura, che non aveva per lui più alcun senso, Duchamp non si è infatti limitato ad accettare questo stato di crisi, rivolgendo la sua attenzione agli oggetti prodotti in serie e ad una concezone decisamente nuova dell’arte. Attraverso le sue molteplici trasformazioni e travestimenti, Duchamp ha anche cominciato a ridefinire un topos tanto antico quanto l’arte stessa: quello relativo alla figura dell’artista come individuo unico, universale, e maschile. Se nella storia dell’arte la virilità dell’artista è tendenzialmente data per scontata, considerata come un fatto universale, storicamente la donna ha avuto invece il ruolo di codificare l’Altro del processo creativo: l’oggetto dello sguardo, l’opera d’arte e l’immagine. Nella tradizione della rappresentazione occidentale, il compito assegnato al corpo femminile è quello di vettore del desiderio, con tutto ciò che questo comporta rispetto alla sessualità e alle formazioni identitarie, ma anche – come vedermo – agli ambiti del commercio e della circolazione delle merci.
Cosa succede all’artista quando, una volta abbandonato l’oggetto tradizionale della creazione, questo Altro sparisce, sostituito da oggetti che, in fondo, non sono altro che merci? Porre questa domanda significa concentrarsi sulla “strategia del sé” adottata da Duchamp nel momento in cui viene a mancare l’alterità rappresentata dal femminile, mentre tenta di reinventare la mascolinità dell’artista a partire dalla constatazione che il ruolo del corpo femminile nella creazione artistica non ha più senso. L’abbandono della pittura, il ricorso ad oggetti di produzione industriale e, infine, la messa in scena e il travestimento rappresentano alcune delle strategie che indicano, da un lato, la rinuncia ad una posizione di dominio e di autorità e, dall’altro, un processo di distruzione e di ricostruzione della sua identità di artista. L’ambivalenza di genere è un aspetto importante quanto rimosso dell’opera di Duchamp, se si considera la marginalità di questi temi all’interno dell’immensa bibliografia sull’artista. Le questioni relative al genere e alla differenza sessuale sono a volte menzionate in rapporto all’erotismo, ma raramente come aspetti centrali dell’ eredità artistica duchampiana. È nel mondo anglosassone, dove lo studio della storia dell’arte è stato profondamente rinnovato dagli studi femministi e di genere, che la questione è potuta emergere in tutta la sua importanza.
Dagli anni Novanta in poi, diversi studi si sono concentrati sulla sessuazione e sulla mascolinità di Duchamp, tra i quali va ricordato in particolare il libro di Amelia Jones, che ha sottolineato la complessità della recezione di un Duchamp sessualmente ambivalente nell’America del secondo dopo guerra1. Duchamp aveva in effetti aperto la possibilità di pensare l’artista come una figura fondamentalmente instabile dal punto di vista dell’identità di genere, cosa che avrebbe avuto delle conseguenze significative per l’arte della seconda metà del XX secolo. Amelia Jones ha dimostrato che dagli anni Cinquanta in poi Duchamp si è imposto come una figura paterna paradossale per tutta una generazione di artisti alla ricerca di un modello di identificazione alternativo a quello rappresentato dalla virilità iperbolica dei pittori dell’impressionismo astratto, sostenuti dagli scritti di Clement Greenberg. L’eredità di Duchamp ha avuto un ruolo non indifferente anche per quelle artiste che hanno portato avanti una ricerca critica attorno agli stereotipi di genere nella storia dell’arte e nella cultura. Il ricorso di Duchamp alla fotografia – il medium che sceglie per raffigurare la sua identità di artista come una messa in scena – può essere considerato come un momento chiave nella storia dell’uso di questo medium, per segnalare il turbamento di genere che attraversa l’arte del Novecento2.
La forza destabilizzante dell’operazione duchampiana si è dunque fatta sentire innanzitutto nell’arte stessa prima che nella storia e nella critica d’arte, che al contrario non hanno cessato di ricondurre l’eredità di Duchamp ai discorsi canonici dell’avanguardia, del modernismo e del mito del grande artista. L’ambivalenza tra Marcel Duchamp e Rrose Sélavy ci dice al contrario che la sua sua opera non sarà mai completamente a proprio agio nel canone della storia dell’arte, ma che rappresenta un contributo radicale per una revisione del canone stesso. Questa revisione, che non significa solo distruzione, ma anche spostamento e reinvenzione, passa necessariamente attraverso la differenza sessuale: cercherò qui di mostrare che è proprio nell’irruzione dell’alterità rappresentata dal femminile nell’immagine dell’artista che emerge tutta la modernità di Duchamp.
Quando Marcel Duchamp arriva per la prima volta a New York, nel giugno del 1915, è già un pittore abbastanza conosciuto per via dello scandalo suscitato dal suo Nudo che scende le scale, esposto due anni prima all’Armory Show. Secondo quanto attestato dalle testimonianze dei contemporanei, gli americani consideravano Duchamp come un pittore celebre, anche se di fatto aveva già smesso di dipingere. Se dunque la sua fama iniziale derivava dai quadri, sarà in seguito la sua personalità affascinante a fare presa sugli americani, particolarmente sensibili a quel suo charme distaccato e alla sua aura di intellettuale. In quel momento un artista come Duchamp rappresentava una novità assoluta per gli Stati Uniti, dove l’arte moderna era ancora un fatto marginale e dove non esisteva nulla di paragonabile alle avanguardie europee. L’America degli anni Dieci rappresentava invece l’avanguardia in materia di modernizzazione e di industrializzazione, con l’emergere di un’industria culturale, emanazione diretta di questa modernità, che si sarebbe di lì a poco espansa attraverso il globo. È proprio questo il contesto in cui il fenomeno della celebrità – con il suo culto – comincia ad affermarsi con forza.
A New York Duchamp appare particolarmente attento alla sua immagine: non è un caso se la fotografia diventa rapidamente un mezzo importante nello sviluppo della propria autorappresentazione, dando forma a quel “culto di sé” che non solo definiva il suo fascino, ma andava anche di pari passo con il suo modo di pensarsi come un artista che in un certo senso aveva smesso di esserlo. L’idea dell’artista che produce un oggetto originale, frutto del suo lavoro, era in effetti in contraddizione con un’epoca segnata da trasformazioni epocali nella produzione e nella riproduzione degli oggetti, quando i mezzi di riproduzione meccanica dell’immagine avevano preso il sopravvento sulla creazione dell’oggetto unico. La fotografia, nel suo essere inestricabilmente connessa alla cultura di massa, era il medium più adatto per conferire un’immagine all’artista “sfaccendato” quale era Duchamp, più interessato ai manufatti industriali che ai quadri, e che si trovava nella posizione di reinventare un modo di essere artista dopo la perdita dell’oggetto d’arte. La fotografia permette a Duchamp di spostare la figura dell’artista al centro dell’immagine, cosa che lo porta inevitabilmente a femminilizzarla: privo della sua opera pittorica, l’artista è improvvisamente esposto allo sguardo e prende il posto tradizionalmente occupato dalla donna, quello dell’immagine.
La decisione di abbandonare la pittura rimanda al modo in cui Duchamp pensava l’identità dell’artista come un’entità tanto sfuggente quanto ambivalente. Tenterò qui di esplorare questa concezione dell’artista concentrandomi sull’articolazione tra la mascolinità e le trasformazioni che Duchamp introduce nella sua immagine dopo la fine della pittura. Il rifiuto del ruolo privilegiato dell’artista-pittorecreatore, così come l’adozione di un alter ego femminile, non significano la semplice rinuncia ad un ruolo tradizionalmente maschile, né all’autorità che lo accompagna. Il tema della virilità del pittore che imprime il suo segno (metaforicamente sessuale) sulla tela, non ha per Duchamp più alcun significato. La rinuncia a quel tipo di identificazione apre la strada ad altre strategie sessuali.
Da questo punto di vista, la possibilità di ripensare l’autorità dell’artista nei suoi significati sessuali e di genere, attraverso un processo di decostruzione e poi di ricostruzione della mascolinità, rappresenta la principale posta in gioco delle trasformazioni introdotte da Duchamp. La rinuncia a un’identità implicitamente associata alle nozioni di maestria (il genio) e di virilità (l’artista e il suo modello) è dunque ben più complessa di quanto possa apparire in un primo momento. Il rifiuto da parte di Duchamp di un’identità – artistica o sessuale – convenzionalmente maschile non significa necessariamente fare a meno dell’autorità maschile in quanto tale. Al contrario, la strategia adottata da Duchamp nel comporre l’immagine sfuggente e molteplice di se stesso come artista lascia trasparire una costante negoziazione con i ruoli che corrispondono sia ad una vocazione (l’artista) che ad un’identità sessuale (l’adozione di Rrose Sélavy come alter ego), che non significa necessariamente la rinuncia ad una posizione di autorità.
La fotografia ha un ruolo centrale in questo processo; l’uso che ne fa Duchamp – quasi sempre attraverso Man Ray – attesta della sua tendenza a orientarsi verso ciò che aveva causato la crisi delle forme artistiche tradizionali. Duchamp si serve della fotografia per comporre la sua immagine, ma si guarda bene dal diventare lui stesso fotografo, preferendo lasciare a Man Ray il compito di scattare le foto, in una fase in cui l’artista americano stava affinando le sue competenze in materia di fotografia commerciale. Tuttavia, Duchamp si serve della fotografia in modo paradossale: se infatti questa tecnica può sembrare la più adatta a fissare l’identità della persona ritratta, fornendo la prova tangibile della sua esistenza, Duchamp la usa invece per far perdere le sue tracce. L’identità che emerge dall’insieme dei ritratti fotografici di Duchamp tra la fine degli anni dieci e l’inizio degli anni venti appare come una formazione instabile, frammentaria e apertamente artificiale. Non è un caso se un numero importate di questi “anti-ritratti” sia stato realizzato negli anni segnati dalla scelta di abbandonare la pittura per interessarsi ai manufatti di produzione industriale. Nella sua qualità di oggetto riproducibile, la fotografia può essere considerata a tutti gli effetti come una merce: in questo senso l’uso che ne fa Duchamp avvicina implicitamente l’artista alla sfera dello scambio mercantile.
Nell’incontro tra cultura d’élite e cultura di massa, la pubblicità funziona come modello nella ricerca di un’alternativa rispetto ad un’ideale di virilità artistica che appare ormai obsoleto. La fotografia, soprattutto nel suo uso pubblicitario, fondato sulla ripetizione e sull’assenza di individualità della merce, risulta a priori incompatibile con la singolarità dell’artista, ma sarà proprio questo intreccio tra l’identità, la fotografia e la merce a caratterizzare le diverse immagini di Duchamp attorno agli anni venti. Sin dall’Ottocento la cultura di massa viene infatti percepita come un ambito femminilizzato, agli antipodi di quel simbolo della singolarità rappresentato dall’artista d’avanguardia3. La cultura di massa rappresenta quell’alterità che permetterà di uscire dall’impasse nella quale si trovava l’arte in quel momento: è proprio attraverso l’introduzione nella propria pratica artistica di questa alterità che Duchamp potrà eludere il paradigma della virilità dell’artista.
L’intreccio tra l’identità, la fotografia e la merce caratterizza le diverse immagini di Duchamp verso il 1920. Nella loro ambivalenza tra ricerca identitaria e artistica, tra cultura d’elite e cultura di massa, tra mascolinità e femminilità, queste autorappresentazioni aprono una serie di nuove possibilità di identificazione per l’artista. La tensione instaurata da Duchamp tra l’eclissi del soggetto, inerente alla ripetizione della merce, e il desiderio suscitato dall’artista, ormai divenuto donna nell’immagine, mette alla prova gli antichi miti della creazione artistica, che risultano di volta in volta abbandonati per poi essere ristabiliti e reinventati.

1. Amelia Jones, Postmodernism and the engendering of Marcel Duchamp, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1994. [↩]
2. Nel 1997 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York ospitava una mostra significativamente intitolata Rrose is a rrose is a rrose, nella quale le fotografie di Duchamp travestito da Rrose Sélavy erano associate alle opere di artiste come Claude Cahun, Nan Goldin o Cindy Sherman che mettevano l’accento su una certa fluidità del genere e dei processi di identificazione attraverso il travestimento e un’immagine teatralizzata di sé. Vedi: Jennifer Blessing (a cura di), Rrose is a rrose is a rrose. Gender Performance in Photography, Solomon R. Guggenheim Museum, New York 1997 [↩]
3. Vedi Andreas Huyssen, After the Great Divide. Modernism, Mass-cultre, Postmodernism, Bloomington, Indiana University Press 1986, pp. 44-62; Tania Modleski, Loving with a Vengeance. Mass Produced Fantasies for Women, Routledge, London 2007
http://www.alfabeta2.it/2014/10/19/lartista-donna-modernita-marcel-duchamp/

Marcel Duchamp e l’arte del rifiuto
di Nicolas Martino

«Una strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé le miserie individuali e sociali che da due secoli torturano la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica». Così Paul Lafargue nel 1880 iniziava il suo celebre pamphlet che confutava il diritto al lavoro rivendicando il Diritto alla pigrizia.
Nel Novecento il rifiuto del lavoro è stato teorizzato e praticato soprattutto dall’eresia operaista che negli anni Sessanta individuava nella strategia del rifiuto operaio all’interno della grande fabbrica fordista un’arma mortale contro il capitale, e nella questione del tempo – nella lotta per la sua liberazione – il principio intorno al quale si giocava la partita fondamentale dentro e contro il capitale. La lotta per il salario sganciato dalla produttività era – in questo senso – immediatamente politica. La lotta contro il lavoro riassumeva insomma il senso dell’eresia operaista. Eresia, certo, perché invece la tradizione del movimento operaio si era da sempre attestata su una orgogliosa rivendicazione del lavoro e della capacità produttiva della classe lavoratrice. Su una orgogliosa rivendicazione della propria identità. Ricordate la storia di quell’operaio, Ludovico Massa, magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté? Ecco…
Eppure quello operaista non è stato l’unico rifiuto, questo ci dice Maurizio Lazzarato in un suo breve saggio pubblicato dalle edizioni Semiotexte in occasione della Biennale del Whitney Museum di New York e ora tradotto in italiano dalle edizioni temporale. C’è stato nel Novecento, nella sua prima metà, un altro rifiuto, altrettanto potente, anche se declinato individualmente e fuori da ogni esperienza collettiva. Un rifiuto nato in ambito artistico e tanto più importante oggi: quello praticato da Marcel Duchamp.
Duchamp infatti ha lottato tutta la vita per sottrarsi al lavoro, ha rifiutato – esattamente all’opposto di Pablo Picasso – di ridurre la sua vita alla produzione di opere da immettere nel mercato. Ha rifiutato di essere un lavoratore dell’arte, un produttore d’immagini. E, ancora più radicalmente, ha rifiutato di identificarsi con la figura dell’artista, ha rifiutato anzi qualsiasi identificazione. A chi gli chiedeva quale fosse la sua professione, Duchamp rispondeva: «Perché volete a tutti i costi classificare la gente? Che cosa sono? Un uomo, semplicemente un respiratore». Ha rifiutato, dicevamo, qualsiasi identificazione cercando sempre di fuggire a ogni assoggettamento: è per questo che inventa, oltre l’opera, il readymade come tecnica che desoggettiva e produce una nuova soggettività, perché abolisce il giudicare, il vedere e il sentire prestabiliti liberando dei possibili e facendo emergere una nuova significazione. Il readymade è un incontro, e quindi la traccia di un evento che come tale annuncia un tempo strutturalmente altro rispetto a quello della modernità occidentale che ha strutturato il farsi e il divenire anche dell’arte. È per questo – per fuggire all’identificazione di sé come artista maschio genio-creatore – che decide a un certo punto di diventare Rrose Sélavy.
Certo, è un gioco difficile quello messo in campo da Duchamp, né dentro né fuori, ma sempre liminare. Se non è un artista Duchamp non vuole essere neanche un anti-artista, è piuttosto un anartista. E non è un caso, probabilmente, che proprio per questo Duchamp sia inciampato nel recupero da parte del mercato con la produzione in serie dei suoi readymade firmati, e nella proliferazione di tanti piccoli sciampisti che – nella seconda metà del Novecento – della provocazione duchampiana hanno fatto, mistificandola, spettacolo. Eppure Duchamp ha resistito, la sua vita è stata un esempio magistrale di resistenza alla sussunzione del capitale che avanza. Tanto più importante oggi, dicevamo prima, quando proprio l’artista è diventato il paradigma del lavoro cognitivo, del lavoro diffuso. Il postfordismo funziona chiedendo al lavoratore creatività, innovazione e quindi libertà. Siate artisti! È l’ingiunzione che il capitale lancia ai lavoratori intellettuali che iniziano a popolare le metropoli occidentali alla fine degli anni Settanta. Ma la libertà dell’artista, probabilmente, è sempre stata solo quella cantata da Franco Califano1.
L’artista interiorizza invece più che mai la passione triste della servitù volontaria, quella di cui parlava Étienne de la Boétie e che il capitalismo postmoderno riesce a mettere straordinariamente a valore. Ecco dunque che la lezione di Duchamp, come quella dell’eresia operaista, è tanto più importante oggi: perché Duchamp aveva capito che l’arte come istituzione non rappresenta più una promessa di emancipazione, ma una nuova tecnica di governo della soggettività, alla quale occorre sottrarsi con il rifiuto e organizzando la «costituzione e il potenziamento di una capacità di agire sul reale che sembra terribilmente mancare alla nostra epoca». Oltre ogni patrimonializzazione della creatività da parte dell’artista, cioè che rimane dell’arte dopo il moderno è il processo creativo come atto estetico ed etico che «sposta e riconfigura il campo di esperienza del possibile e costituisce un dispositivo di fabbricazione di un nuovo sensibile».
Può anche darsi che non si possano ridurre tutte le esperienze dell’arte contemporanea alla sussunzione e al mercato, può anche darsi che questo giudizio, che Lazzarato sembra condividire, risulti eccessivamente ingeneroso rispetto alle pratiche di resistenza che l’arte stessa, nelle sue esperienze più interessanti, è in grado di organizzare. E certamente la sussunzione non è mai totale, il capitale non è un Moloch ma una relazione di comando, e quindi sempre una lotta tra i dispositivi di assoggettamento e la cooperazione viva dei soggetti produttivi. Ma proprio per questo quello che più ci sembra interessante, ciò che davvero risulta decisivo, è la resistenza attraverso la quale Duchamp ci ha insegnato a mettere in pratica una metamorfosi continua e a sfuggire agli apparati di cattura. Possiamo pensare allora che oggi la resistenza sia – ancora e anche – nell’opera? Certamente sì, se l’opera è il comune che stiamo imparando a costruire insieme.

Maurizio Lazzarato
Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro
edizioni temporale (2014), pp. 64
€ 8
http://www.alfabeta2.it/2014/10/19/duchamp-larte-rifiuto/

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