A proposito delle discussioni sul rapporto tra femminismo e modifiche costituzionali, mi sembra importante ricordare che nel 2003, alla Camera dei Deputati, fu modificato grazie a una iniziativa promossa da me e da altre parlamentari, l’art.51 della Costituzione.
In precedenza, l’art.51 recitava così: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica.
Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”.
E dal 30 maggio 2003 (G.U. 12 giugno 2003, n.134) il testo costituzionale è stato così modificato: “Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica. Chi è chiamato a funzioni pubbliche elettive ha diritto di disporre del tempo necessario al loro adempimento e di conservare il suo posto di lavoro”.
Ero intervenuta in aula dicendo tra l’altro: “…è importante che la discussione sulla riforma dell’articolo 51 della Costituzione sia giunta in aula presto, quasi all’inizio di questa legislatura. È un risultato di cui ringrazio la relatrice, onorevole Montecchi, la I Commissione, il suo presidente e la ministra Prestigiacomo (…) Appositi provvedimenti possono essere anche – il tema mi sta particolarmente a cuore; vi sono proposte di legge che vanno in questa direzione – regole, indicazioni per gli statuti dei partiti (fatto salvo, ovviamente, il limite costituzionale alle leggi sui partiti). Del resto, la stracitata sentenza n. 422 del 1995 della Consulta – è vero, collega Boato, è una consulta di maschi; mi auguro che finisca presto questa scandalosa prevalenza maschile nella Corte costituzionale e mi auguro che il Parlamento contribuisca a farla finire – rimandava, e giustamente, ai partiti il compito di favorire l’impegno e la partecipazione delle donne nelle istituzioni. Per questo non ritengo scandalosa quella sentenza”.
E continuavo così: “Parlavo precedentemente dell’emergenza. Basta guardare le cifre – tra le più basse del mondo democratico e del mondo in generale – della presenza femminile nelle istituzioni. Uso il termine presenza e non rappresentanza soprattutto perché – è stato detto, ma è bene ripeterlo – le donne non sono, non sono mai state, non saranno mai, un gruppo omogeneo, rappresentabile in quanto tale; argomento, questo (se mi si consente lo scherzo), sostanziale, materiale, a favore di quella neutralità della rappresentanza che difendo, ma che non impedisce di lavorare per rimuovere gli ostacoli, non all’esplicarsi della rappresentanza di genere, ma all’esplicarsi di una pienezza della rappresentanza. Queste cifre sono, più o meno, le stesse per l’Italia dall’Assemblea costituente ad oggi, pur con qualche significativa eccezione, come gli anni ottanta, in cui il Partito comunista italiano elesse molte donne parlamentari. Ma sono sostanzialmente le stesse cifre. Il problema è che oggi, diversamente da quanto accadeva cinquanta, trenta o addirittura venti anni fa, le donne sono dappertutto – lo ricordava sia la relatrice sia la ministra Prestigiacomo – e spesso ricoprono incarichi di grandissima responsabilità (…) La riforma dell’articolo 51 della Costituzione, dunque, va nella direzione di avvicinare le istituzioni alla società agendo sull’accesso, specificando, cioè, il dettato dell’articolo 3, comma 2, della Costituzione medesima (mi riferisco al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli alla piena uguaglianza dei cittadini e delle cittadine) (…) Come ho già detto, considero giusto, oltre che necessario, che le regole siano condivise. Perciò, ho più di una perplessità sulla scelta di introdurre nella Costituzione l’espressione «pari opportunità», per alcune ragioni esposte dal collega Boato e per altre due: anzitutto, per la difficoltà – è stato più volte rilevato, anche se stiamo lavorando per trasformare la cultura politica e giuridica – a rubricare sotto la voce opportunità l’accesso alle cariche elettive; in secondo luogo, per l’opportunità (si perdoni il bisticcio di parole), richiamata più volte dal presidente Maccanico, di seguire una certa coerenza, anche linguistica, nel testo costituzionale: nel nuovo titolo V della Costituzione si parla, infatti, di parità di accesso e non di pari opportunità. Pur preferendo, dunque, l’espressione «parità di accesso» – scelta dalla Camera nella scorsa legislatura e contenuta in molte delle proposte di legge costituzionale presentate – la quale, a mio modo di vedere, indica più chiaramente sia l’obiettivo sia il limite della norma, ritengo giusto ed opportuno che a prevalere sulle esposte perplessità sia la necessità di approvare, al più presto, questa modifica costituzionale, il cui iter non inizia oggi: nella scorsa, come in questa legislatura, essa ha coinvolto non solo parlamentari di tutti i gruppi (donne, in prevalenza, ma anche qualche uomo, che ringrazio ancora una volta), ma anche associazioni, gruppi, singole persone, insomma quell’opinione pubblica femminile di cui, troppo spesso, la politica pensa di poter fare a meno e che, invece, costituisce una risorsa per la sua riforma”.