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In una parola / Orrore (maschile)

24 Giugno 2014
di Alberto Leiss

Marlon Brando in Apocalypse Now

Marlon Brando in Apocalypse Now

Pubblicato sul manifesto il 24 giugno 2014 –

“L’orrore… l’orrore…”. Sono, com’è noto, le ultime parole di Kurtz nel romanzo di Conrad Cuore di tenebra. Un testo sul colonialismo, tradotto da Francis Ford Coppola in Apocalypse Now in una più generale critica della violenza bellica. Ma Kurtz e l’interpretazione magistrale che ne da Marlon Brando nel film sul Vietnam, sono personaggi maschi. E non per caso.
L’orrore, quell’orrore, mi è venuto in mente sfogliando un quotidiano nei giorni scorsi, e leggendo questa sequenza di titoli: “Mamma sgozzata con i suoi due bambini: il marito trova i corpi..”; “Iraq, esecuzioni di massa e cadaveri decapitati..”, e ancora: “Sarajevo, la biblioteca della rinascita”. Quest’ultima è una notizia positiva, ma evoca altri orrori: la guerra in Bosnia, la pulizia etnica, gli stupri di massa.
Mi si dirà che metto insieme fatti troppo diversi. Eppure credo sia necessario affrontare questo aspetto. Mi ha colpito, seguendo in rete la discussione seguita al delitto di Motta Visconti, e al caso della ragazza Yara Gambirasio, un comunicato delle donne dell’associazione Il Melograno che conoscevano la vittima Maria Cristina Omes e che scrivono, tra l’altro: “…riflettiamo invece sul VUOTO che circonda gli uomini. Uomini che continuano a sentirsi per sempre socialmente figli, viziati e coccolati, e che non riescono a diventare padri, ad assumersi la responsabilità delle scelte… Non siamo di fronte a un delitto individuale ma a una malattia sociale…”. Il testo poi ricorda gli spazi inventati dalle donne per riflettere sui propri sentimenti e le proprie relazioni, e si conclude con nettezza: “Spetta ora agli uomini prendersi cura di se stessi, creare i loro spazi di riflessione, sostegno e relazioni. Dove riflettere sulla propria sessualità irrisolta, sugli oscuri impulsi alla violenza, sull’enigma della possessività, sulla paternità incompresa. Senza chiedere ancora una volta alle donne di spiegare e farsi carico dei loro problemi”.
Anche tra amici che cercano di riflettere e agire nella consapevolezza della violenza connotata dal patriarcato, ho ascoltato interrogativi su una divisone così netta: da un lato donne vittime ma più responsabili, dall’altro l’intero genere maschile accomunato nella “malattia sociale”.
Eppure non possiamo sfuggire – credo – a questo nodo culturale e simbolico. Penso che nella violenza “privata” contro le donne stia la radice ineludibile delle più varie forme di violenza che soprattutto il genere maschile – bisogna riconoscerlo – impone al mondo. Da lì, quindi, bisogna partire. Il problema non credo stia nella differenza della natura biologica, ma nelle strutture culturali e simboliche che anche la differenza biologica e sessuale ha determinato e messo a fondamento delle società in cui viviamo.
Non è un caso se oggi il tema della violenza maschile contro le donne assume un rilievo così alto, pur con tutte le strumentalizzazioni e le ambiguità che la scena mediatica e politica ci offre. Accade quando quelle strutture simboliche e culturali stanno venendo meno. In America le donne soldato sono ammesse al fuoco della prima linea (mentre i generali cercano di fare la guerra con droni e bombe, senza rischiare la vita dei soldati). Una filosofa femminista, Luisa Muraro, scrive un libro (Dio è violent) che rivendica la competenza simbolica femminile sulla violenza, ricordando che il patto sociale è stato costruito su un patto sessuale implicito in cui la violenza maschile è sempre stata la norma. Quel patto è saltato – per iniziativa delle donne – e noi maschi dobbiamo deciderci a prenderne atto sino in fondo.

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