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relazioni politiche, dal quartiere al mondo

In una parola / Fallimento (del mercato)

22 Maggio 2014
di Alberto Leiss

Pubblicato sul manifesto il 20 maggio 2014 –

Occupandomi professionalmente delle attività di una Regione (nel caso la Regione Liguria) mi sono reso conto tempo fa che l’iniziativa pubblica, regolata da occhiute norme europee, è autorizzata a intervenire economicamente per sostenere la disponibilità di certi beni nelle aree cosiddette “a fallimento di mercato”. E’ il caso per esempio dell’estensione della banda larga e dell’accesso al web. Dove il gioco della concorrenza e della offerta di servizi da parte delle aziende private del settore non riesce a intervenire (per esempio in zone montuose e poco abitate dove il costo per installare gli impianti necessari non sarà mai coperto dal pagamento degli abbonamenti ecc.) il pubblico può investire e realizzare le tecnologie necessarie per superare davvero il digital divide.
Credo che questo concetto di fallimento di mercato risalga alle teorie liberiste di Pareto, ma non sono un economista: mi limito a constatare che anche nell’Europa dell’austerità e del neoliberismo sta scritto che il mercato può fallire.
Ci sarebbe da discutere sull’entità di questi fallimenti che vanno ben al di là del non poter garantire l’accesso a Internet tra le montagne, cosa pur grave. Colgo alcuni segnali di una rivincita del ruolo dello stato, non solo dalle parti di chi si oppone frontalmente alle ragioni del mercato.
Per esempio il libro di Mariana Mazzucato Lo stato innovatore (ne ha parlato Benedetto Vecchi sul manifesto di sabato scorso), che ci ricorda l’origine pubblica, persino militare, non solo della tecnologia di Internet, ma di molte delle scoperte scientifiche e tecnologice che hanno alimentato il business di grandi multinazionali (Apple, Google, Big Pharma). Oppure la tesi in controtendenza di Sabino Cassese nel suo ultimo libroGovernare gli italiani. Storia dello stato (Il Mulino) – dove si legge che la globalizzazone (il potere finanziario, il terrorismo, il riscaldamento globale, ecc.) certamente domina gli stati, ne “limita l’azione”, ma d’altra parte ne “amplia la portata” verso “decisioni collettive globali”. Dunque ci sarebbe un novo futuro necessario per gli stati nazionali dati per morti.
Chissà. Non sono un partigiano dello statalismo contro il ruolo del mercato. Penso piuttosto che bisognerebbe essere capaci di agire nel mercato, quale luogo dello scambio, combattendone la logica competitiva e monetaria con altre logiche relazionali, sentimentali, simboliche. Ma certo aiuterebbe un nuovo e diverso protagonismo dello stato, degli stati. Rivolto al sostegno della scienza e della cultura, e alla cooperazione internazionale, non certo all’esibizione di rigurgiti nazionalistici, egoistici, bellicisti.

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